Parecchi anni fa ho visto da vicino quello che era, poteva diventare, non sarebbe mai stata l’Europa unita. Parlo del 2000, e parlo di Londra. Per i quasi trentenni di allora come me, quelli della prima generazione Erasmus (che sì, è esploso mediaticamente dieci anni dopo, ma c’era già nel 1996, quando l’ho fatto io) è stato un periodo ricco e pieno. Tutto pareva possibile: l’arrivo e lo sviluppo della rete, nuove opportunità lavorative, le Twin Towers ancora saldamente al loro posto, un mondo che pareva senza confini.
In quel periodo lavoravo a Yahoo! in Italia. Yahoo! che, prima di una catena quasi incredibile di fallimenti, scelte e management sbagliati, era allora quasi quello che Google è oggi. E si stava espandendo in tutta Europa: nei paesi scandinavi, in Francia e Spagna, poi appunto in Italia. Finché, un paio di anni dopo, da Palo Alto arrivò l’idea: creiamo un headquarter europeo, a Londra appunto, e dove se no? Un team sovranazionale, di persone provenienti da tutte le sedi europee. Uno snodo tra la sede statunitense, che sviluppava i nuovi prodotti, e le varie properties europee. Che negoziasse partnership commerciali e di contenuti più forti, perché globali. Che interpretasse i nuovi prodotti creati dalla casa madre e li traducesse e adattasse — localizzasse, il verbo giusto — nel modo migliore, in tutti i paesi.
E così, in un paio di mesi, fu creato il team europeo, del quale facevo orgogliosamente parte. Nella classica formazione da barzelletta: un francese, due italiani, uno svedese, uno spagnolo, eccetera. Iniziammo con un entusiasmo incredibile: nel giro di pochi mesi, eravamo già tutti più o meno depressi. La nostra job title — European Producer — faceva ridere. Il nostro lavoro si riduceva a discussioni infinite sul nome di un prodotto — ricordo estenuanti conference call con i tedeschi che non volevano assolutamente tradurre Yahoo! Groups con Gruppen, perché la parola, benché corretta, aveva un vago retrogusto militare. Ricordo liti infinite con i francesi che volevano un’interfaccia giallina, anziché arancione. Non avanzavamo di un millimetro. Avremmo dovuto portare le istanze europee agli statunitensi, che però ci ignoravano bellamente e continuavano a concepire prodotti solo per il loro mercato, imponendoli poi a tutte le sedi europee, senza accettare cambiamenti. Avremmo dovuto intervenire nelle decisioni di ogni singolo paese, proponendo partnership e accordi, ma ogni country manager voleva decidere per se e non tollerava imposizioni “europee”, qualunque cosa questo volesse dire.
Sono stati due anni densi e istruttivi; un’Europa in scala ridotta che potevo osservare dalla scrivania, come un entomologo che riproduce un formicaio sotto vetro. Umanamente, un periodo bellissimo. Londra, gli amici, le bevute, le chiacchiere. Professionalmente, la sensazione di aver combinato davvero poco, paralizzata tra deadline statunitensi e ribellioni nazionali. Poi arrivò l’11 settembre e davvero, i problemi diventarono altri. Ma la verità è che in quei due anni non abbiamo fatto la differenza. Non che non fossimo necessari: avremmo potuto esserlo. Ma non siamo stati utili. Siamo stati percepiti da parte degli statunitensi come una barriera all’espansione europea e come un ulteriore, superfluo anello della catena di comando da parte dei singoli paesi. Alla fine, eravamo una specie di organo consultivo che non si capiva bene a cosa servisse.
A tutto questo, a questa specie di metafora che ho vissuto, pensavo nei giorni scorsi, quando ero a Londra un po’ per lavoro e un po’ in vacanza, stringevo la mano ai volontari del Remain e credevo come tanti, che no, non fosse possibile un’uscita del Regno Unito dall’Europa. Lo pensavo in modo superficiale, epidermico, romantico. Nello stesso modo in cui ho vissuto lo choc del risultato. Come un tradimento. Come se avessero fatto un dispetto a me, proprio a me. Lo spiega bene Paolo Giordano nel suo pezzo per il Corriere, che è sì un’infilzata di luoghi comuni sulla bella Inghilterra libera ma, appunto, chiarisce bene la delusione di chi ha sempre pensato che il piano B “me ne torno a Londra” o, più realisticamente, ci mando mia figlia, fosse a portata di mano (se non l’avete letto, lo trovate qui)
A due giorni dal voto, sono state raccolti più di due milioni di firme per rifare il referendum (che tenerezza: “non ci è piaciuto com’è venuto, dai, si rifà?”) mentre Trump, per il quale la Scozia è probabilmente quello che per noi è il principato di Seborga, dice agli scozzesi “bravi per la Brexit” e la Meloni pensa che Dublino sia una città inglese. Più che alla mia personale delusione penso a cosa succederà, cercando come tutti di leggere il più possibile: qui il riassunto con fact-checking di Redazione Valigia Blu che sottolinea come la notizia dei giovani britannici paladini dell’Europa contro i vecchi inglesi conservatori ed egoisti sia, in realtà, solo un sondaggio pre-voto moderatamente attendibile. Ci ero cascata anche io, sempre per via dell’interpretazione romantica e anche un po’ per la carineria di questi due ragazzi dipinti di blu intervistati davanti al Parlamento, il giorno dopo: ma guardando questi dati, si vede che in realtà molti giovani a votare non ci sono andati proprio.
Qui una dettagliata analisi di Luca Sofri (con alcuni link interessanti) che cerca di allargare lo sguardo e di capire i collegamenti mondiali. Tra Brexit e Trump, ad esempio. Tra Brexit e Marine Le Pen.
Personalmente vorrei condividere la visione di Dino Amenduni che spera nasca dal dopo-Brexit la democrazia del post-vaffanculo. Che succeda, insomma, come quando arriva una bocciatura a scuola: si può tracollare ulteriormente o mettersi in riga per l’anno dopo.
Ma non ci riesco perché mi manca la sua fiducia nella capacità della gente di imparare dai propri errori. Quindi, ho portato da Londra questo libro come souvenir. E inizio a studiare i fallimenti, che la retorica del buon fallimento oggi è così di moda (sì, è impaginato al contrario. Adorabile).
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