Once Yahoo, Yahoo Forever, si diceva ai miei tempi. Era il 1998, ero una neolaurata nata nel ponente genovese (non ligure, purtroppo: il ponente operaio, non quello rivierasco), avevo avuto l’intuizione di scrivere una tesi di laurea, a metà 1997, sull’inglese del giornalismo online e la fortuna di avere un relatore abbastanza giovane e brillante da concedermela (Gabriele Azzaro, grazie, ancora una volta).
In cerca di lavoro, avevo mandato una mail (una delle decine) a Yahoo.com per fare la “surfer”, da casa, sui siti in lingua italiana. Che erano ben pochi, certo, al momento. Avevo ricevuto una risposta che diceva: “Stiamo lanciando la versione italiana di Yahoo!. Hai un colloquio fissato a Milano. Good luck.”
Abbiamo lavorato tre mesi senza soluzione di continuità per lanciare Yahoo! Italia, da gennaio a marzo 1998. Eravamo in sei, con esperienze e provenienze molto diverse. Dopo il lancio siamo rimasti in quattro. Avevamo un capo meraviglioso (Anthony Khan, grazie, ancora una volta) che ci ha insegnato come essere un gruppo, come lavorare come pazzi, come divertirci ancora di più. Work hard, party harder. Lavoravamo sempre, perché quando era ora di chiudere con l’Italia, si svegliavano i colleghi dalla California. Non importava. Eravamo felici. Quasi nessuno dei nostri amici e parenti capiva quello che stavamo facendo. Di quel periodo ricordo Anna Masera e Luca De Biase che vennero a intervistarci e a vedere il nostro ufficio. Un minuscolo open space con vista sul Duomo, un esperimento antropologico, dove le liti con i fidanzati e l’organizzazione delle serate erano a portata di orecchio di tutti. Tutto ciò che ora mi renderebbe isterica, allora neanche lo vedevo. Eravamo giovani, eravamo felici, eravamo tolleranti, ridevamo di tutto, lavoravamo sorridendo. Spiegavamo il web alle aziende italiane. Agli editori italiani, per fare delle partnership. Nel 1998. E sì, c’era la liturgia del viola e giallo, dei gadget (conservo ancora decine di t-shirt e yo-yo, il gioco da tavolo Yahoopoly, una tavola da snowboard, e non mi pentirò mai abbastanza di non avere comprato la bicicletta), delle mitiche visite a Palo Alto, dello spirito di corpo. Anche qui: tutto ciò che poi non ho sopportato nelle aziende in cui ho lavorato dopo, lì lo amavo. Jim McCarthy parla di “valori hippies”. Sono d’accordo e aggiungo, almeno per me, l’assenza di gerarchie all’italiana. Almeno per quel primo anno, anno e mezzo fatato. Quando sono arrivati i capi all’italiana, le gerarchie, i lei non sa chi sono io, è diventata un’azienda uguale alle altre, purtroppo.
Cosa facevamo
Ho passato gli ultimi due mesi a scrivere un libro, una guida completa per Apogeo per giornalisti e comunicatori sui social media. Uscirà la prima settimana di ottobre 2016 — consigli per gli acquisti — . Mi sono resa conto, cercando di scattare una fotografia del panorama social media attuale e dell’immediato futuro, che Yahoo! ci era già arrivato. Dieci anni prima. Sì, poi ha buttato via tutto il vantaggio, tra manager inadatti e scelte suicide. Ma allora, era avanti di molti anni. Forse pure troppi, perché quando sei troppo avanti e ti guardi indietro e non c’è nessuno, proseguire non è facile.
Oggi che molti si chiedono come fare a dare un tocco umano alla loro presenza online, a rendere i risultati di ricerca davvero rilevanti per chi li riceve, oggi che si parla di web semantico e di maggior empatia della rete: ecco, pensate che noi recensivamo il web a mano. Adepti di un unico dio chiamato Directory. Vestali della Tassonomia, diretta emanazione di quella americana, ma leggermente adattata — localizzata — per incontrare meglio la cultura locale. E a questo proposito ricordo discussioni di settimane con la nostra referente negli Usa, Tina, italoamericana che sfoggiava un buffo italiano alla Stanlio e Ollio. Ad esempio, per inserire la sottocategoria, mancante negli Usa, /Centri sociali, sotto /Cultura/Controcultura. Ce l’abbiamo fatta, alla fine. Ma questo per dire la serietà, a volte anche un filo ottusa, con la quale si conservava la forma originale della tassonomia. La Directory era tutto. E a proposito di scelte suicide, non mi sono mai spiegata il perché abbiano deciso di eliminare un patrimonio del genere, pazientemente recensito a mano da persone che conoscevano perfettamente la cultura e il web dei loro paesi.
Per lavorare avevamo un software chiamato Hotlist, con un’interfaccia semplicissima, che riproduceva la tassonomia di Yahoo!. Ogni sito nel quale ci imbattevamo andava guardato, incasellato in una categoria principale, linkato ad altre categorie o sottocategorie secondarie se era il caso e completato con qualche riga di recensione. Copiavamo quello che facevano i surfer statunitensi, ascoltando i loro consigli. Usavamo Hotlist per così tante ore al giorno che spesso tornavo a casa, andavo a dormire, chiudevo gli occhi e rivedevo Hotlist nel buio. Incasellavo siti a memoria mentre tentavo di prendere sonno. Lo stesso software serviva per ripulire la Directory dai siti morti e non più aggiornati, per mantenerla viva. I nostri concorrenti? Virgilio. Arianna. Era tutto così semplice: c’era la Directory e c’erano pochi servizi fondamentali, ottenuti tramite partnership: le news, il meteo, la finanza, alle quali lavoravamo nel tempo lasciato libero dalle recensioni dei siti. Era il web non social. Il web artigianale, in cui si comunicava solo via mail. E gli utenti comunicavano eccome: scrivevano, chiedevano informazioni, si lamentavano. Ricorderò per sempre uno che aveva preso un giorno di ferie per rifare il tetto di casa, basandosi sul meteo di Yahoo, che prometteva sole pieno. Quel giorno piovve a dirotto. Non ripeto gli insulti che ci arrivarono via mail: si calmò solo con l’invio di svariati, ambitissimi gadget.
Ci sentivamo liberi, ma eravamo controllati come quelli del call center descritto in Tutta la vita davanti. Per ogni surfer, i capi Usa avevano una tabella mensile di rendimento: quanti siti visti, quanti siti recensiti. Al migliore, il Capo dei surfer (sì, esisteva veramente) ogni mese consegnava una scultura pacchianissima, il Silver Surfer, da sfoggiare sopra il monitor del computer, grande come un televisore. Ci sentivamo sfruttati? No. Non so dirvi perché. Se perché l’atmosfera era permeata di entusiamo e allegria. Se perché era tutto all’inizio e ci sentivamo i pionieri. Se perché ci sembrava di fare il futuro, e un po’ era vero. Se perché si parlavano almeno quattro lingue, si viaggiava molto, si beveva di più. Se perché avevamo tutti quindici anni di meno. Se perché, più probabilmente, ci pagavano bene, c’era il miraggio delle stock options e chance vere di migliorare: crescere, cambiare posizione, cambiare settore, andare all’estero. Tutto il contrario della stagnazione che vedo oggi. Non lo so. So che è stata una stagione irripetibile, alla quale penso sempre con molta nostalgia.
La content curation
Poi sono passati anni, e oggi mi trovo in aula a spiegare cosa sia la content curation e come si debba usare Storify e perché sia una competenza fondamentale per un giornalista (inteso nel senso di chiunque produca contenuti). Saper setacciare la rete alla ricerca di contenuti di valore nostri e altrui, saperli reimpacchettare e riproporre ai lettori in una veste diversa, saper raccontare una storia nella quale le fonti si armonizzino come nella più bella coperta patchwork che riusciamo a immaginare. Ecco, Yahoo!, che aveva chiarito fin dal primo giorno di non essere un produttore ma un aggregatore di contenuti, nel 1998 aveva le Full Coverages. Erano pagine dalla grafica semplice, come tutto il portale del resto (che impressione scrivere ‘portale’, eh? Ma così si chiamavano) che aggregavano contenuti in rete su notizie di attualità. Io che venivo dal giornalismo locale ne ero esaltata. Ne avrei fatte dieci al giorno. Era la curation prima della curation. Vedete che ho ragione a dire che Yahoo! era arrivato prima?
E aggiungo: Yahoo! Pager, poi diventato Yahoo! Messenger. Un sistema istantaneo di messaggeria, zeppo di emoticons, che abbiamo usato allo sfinimento per comunicare con i colleghi oltreoceano. Ma anche con il vicino di scrivania. Decine di relazioni fra colleghi, clandestine o meno, sono nate grazie al Messenger.
E quindi?
Purtroppo non basta arrivare primi. Bisogna capire come gestire il vantaggio e in questo, pur con vorticosi cambi di management, quelli di Yahoo! non sono mai stati bravi. Per quanto mi riguarda, dopo quell’esperienza bellissima del lancio di Yahoo! Italia, sono stata ancora un anno a Milano. Poi sono passata a Londra, all’headquarter europeo, facendo un’altra bellissima — ma straniante — esperienza, che ho raccontato qui. Quindi sono tornata in Italia a fare altro, e ne ho seguito le vicende da lontano. Sono anche andata a visitare gli uffici milanesi (poco prima che chiudessero), per concedermi un momento nostalgico. E la cessione a Verizon mi è sembrata ormai solo un passo obbligato. Perché quella stagione, quando Yahoo! avrebbe potuto comprare Google, per intenderci, era chiusa da parecchio.
Io ho solo ringraziamenti da fare. Senza l’esplosione di internet e senza quella mail mandata un po’ per caso, sarei probabilmente restata a Genova a fare quello che una giornalista pubblicista laureata in lingue poteva fare: lavorare al quotidiano locale per dieci anni buoni, un tanto ad articolo (5.000 lire in pagina, 8.000 l’apertura, ricordo) sperando che prima o poi si liberasse un posto. Invece ho avuto una chance, ho imparato molto, ho viaggiato, ho conosciuto persone meravigliose che vedo e sento ancora, ho potuto vedere l’evoluzione del web da vicino, dagli albori (italiani) a oggi. E poi sì, once Yahoo, Yahoo forever.
(Grazie anche a Wayback Machine per lo screenshot d’epoca. Qui ci siamo anche noi sei, quelli che hanno fatto Yahoo! Italia).
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