L’avrete visto in molti ormai il video con cui tre esperti di vino e degustazione – il sommelier Luca Gardini, il ristoratore Alessandro Pipero e il sommelier, oste e blogger su Intravino Andrea Gori. Magari non tutti notissimi al grande pubblico, non come i giudici di Masterchef per dire, ma delle autorità nel mondo del vino. Lo spot, perché di partnership pubblicitaria trattasi, ma è detto chiaramente, mostra tre aspiranti sommelier alle prese con una degustazione particolare: devono riconoscere tra quattro calici quale vino sia il Tavernello, etichetta che, a loro dire, schifano: “non lo uso nemmeno per cucinare”.
Sorpresa ma mica troppo: i vini erano tutti e quattro Tavernello, anche quelli che i tre wannabe sommelier avevano identificato come vini “buoni” o “costosi”.
Pareri divisi: c’è chi loda la volontà di fare una comunicazione “diversa”, qualunque cosa questo voglia dire, chi s’indigna, come Daniele Cernilli aka DoctorWine che ha escluso Gori dalla sua guida, chi critica i tre protagonisti dello spot che hanno basato buona parte del loro lavoro e della loro autorevolezza proprio sulla valutazione dei vini migliori per poi dire, nel video, che bisogna liberarsi dai pregiudizi e non si beve l’etichetta, ma quello che c’è nel bicchiere. Nulla di nuovo: degustazioni alla cieca di Tavernello ai danni di ignari sommelier erano già avvenute anni fa, e simili operazioni, come lo stesso Gardini che pubblicizzava i vini economici di un supermercato, avevano prodotto critiche simili.
Io provo solo a mettere in fila qualche fatto, a unire i puntini di una tendenza che vedo svilupparsi ogni giorno di più.
- Secondo la ricerca Nomisma, presentata a Vinitaly 2019, solo un italiano su quattro sa cos’ha nel bicchiere e non sa abbinare i vini fra i più noti d’Italia alle corrette regioni di provenienza. Più che di comunicazione, c’è bisogno di divulgazione. Non nel senso di banalizzazione come ormai viene interpretata, ma nel senso di informazione corretta resa accessibile e perché no, anche e divertente.
- Da molti parti avverto sempre più fastidio per una comunicazione del vino ingessata, fredda, lontana dal consumatore, che ottiene il risultato peggiore: far sentire il non esperto uno stupido E credetemi, lo so bene, dopo centinaia di ore di aula e di formazione: chi ti ascolta perdona tante cose, ma mai il farlo sentire stupido. Purtroppo, mi spiace non tanto per spirito di corpo quanto perché all’interno di associazioni come AIS esistono tante persone diverse, ma tant’è, il cliché è il cliché, questo tipo di comunicazione è spesso associata, nell’opinione comune, ai sommelier certificati. Guardate cosa scrive il primo commerce italiano, Tannico.it, in una ricerca di lavoro:
E ancora, nella presentazione dei nuovi corsi di conoscenza del vino:
Il messaggio è chiaro: c’è un mondo che parla di vino in modo oscuro e incomprensibile, che fa sentire quelli al di fuori incompetenti e incapaci di scegliere una bottiglia al ristorante. Cosa che ha fatto nascere la divertente serie di video sul Second Cheapest Wine, quello che si ordina, sotto l’occhio severo di un impettito sommelier, quando non si ha idea di cosa prendere, non si vuole apparire troppo tirchi ma nemmeno spendere un patrimonio. E poi c’è un nuovo mondo che ve la fa facile, perché il vino è innanzitutto divertimento e condivisione.
- Ancora: tra i narratori del vino più bravi e letti sui social, ci sono ragazzi giovani (trentenni, o meno) come Cantina Social o Enoblogger; cito loro perché li conosco bene e li ho intervistati per il mio libro, sono buoni esempi fra i tanti. Il loro obiettivo è parlare di vino in modo semplice, chiaro, accattivante. Ma attenzione: hanno tutti alle spalle studi di enologia, di sommelerie, master e altro. Sono molto più influexpert che influencer. Questo per ricordare che è questione di come si comunica; non di come o quanto si sa. E che, ancora una volta, per rompere le regole bisogna prima studiarle e conoscerle.
- Infine, sono reduce (è la parola giusta, dopo 5 giorni di aula e 76 vini degustati!) dal corso per il terzo livello WSET, dove ho scoperto e spero imparato un approccio completamente diverso al mondo del vino e alla sua narrazione. Un taglio più asciutto per la degustazione, dove i descrittori degli aromi hanno importanza, sì, ma non diventano ispirati (e a volte eccessivi) poemi, e dove il ruolo dell’esperto di vini, che sia un sommelier, un esportatore o un giornalista, non è quello di imporre un gusto personale, ma quello di comprendere le preferenze dei consumatori e offrire, grazie alla loro competenza globale, alternative simili a vini che amano già, per ampliare i loro orizzonti. E l’obbiettivo è anche quello di capire se per un vino esiste un segmento di mercato. Esiste un mercato per il Tavernello? Pare di sì. Spiegano da Caviro, filiera vitivinicola che riunisce oltre 13 mila soci e che da qualche anno sta riposizionando l’immagine del Tavernello, che sono 4 milioni le famiglie italiane che ogni giorno lo mettono in tavola.
Per chiudere: credo che ci sia un’incomprensione di fondo. Un sommelier deve usare necessariamente un linguaggio tecnico nel suo lavoro di degustatore; è il gergo per farsi comprendere dai sui simili, quando ad esempio si compila una guida o si discute di vino a livello professionale. È una lingua comune appresa sui libri e necessaria. L’errore, semmai, è fare sfoggio di questo latinorum del vino quando si parla con il grande pubblico, che non ha e nemmeno deve avere una base comune di lessico e tecnica. L’errore è investire qualcuno che vuole solo bersi un calice con tonnellate di informazioni indecifrabili e a lui inutili, solo per sciorinare la conoscenza. Ma è, ancora, una questione di comunicazione, non di competenze. Riguarda il codice di comunicazione da applicare alle diverse situazioni che, credo, tocca tutte le professioni, non solo quella del sommelier. Un’estensione di quello che impariamo (o dovremmo imparare) alle elementari: non ti rivolgi alla maestra come ti rivolgi al tuo amichetto, giusto? Quindi, c’è un pubblico per la lingua dei sommelier e uno per la lingua del vino pop. Come c’è un pubblico per il Bordeaux e uno, evidentemente, per il Tavernello. E il fatto che tre grandi esperti e grandi comunicatori di vino abbiano deciso di sottolinearlo significa probabilmente che questa domanda di una maggior semplicità nella comunicazione, ma anche questa voglia di “liberi tutti” è arrivata forte e chiara.
Infine: è una pubblicità, non un’inchiesta. Chiaramente, l’obbiettivo è quello di promuovere un prodotto, non di denigrarlo. O rifiuti di farla, o se la fai, sai perfettamente dove stai mettendo la faccia e quali eventuali conseguenze dovrai affrontare. Esattamente come tutti i consumatori sono (più o meno, budget permettendo; ma oggi il ventaglio di prezzi è davvero ampio e certa grande distribuzione offre ampia scelta) liberi di scegliere quale vino bere.
Stefania Vinciguerra says
Una precisazione: Cernilli non si è indignato a caso. Ha detto: Gori ha una tessera da giornalista pubblicista e l’ordine al quale è iscritto vieta espressamente ai giornalisti di fare pubblicità, per evitare di minare la sua autorevolezza e mettere in dubbio la sua correttezza agli occhi dei lettori. Cernilli condivide questa visione: aiutando a giudicare vini per la sua guida, Gori non può fare pubblicità a un vino. Se lo fa, è fuori dalla guida. È una questione deontologica insomma.
barbarasgarzi says
Ti ringrazio per la precisazione, perché nel pezzo che ho linkato, ma anche in altri che ho letto, non si faceva riferimento all’albo giornalisti ma a questioni di credibilità, cito: “Non posso accettare – ha detto Cernilli – che i collaboratori della Guida diventino testimonial per aziende di vini che possano intaccare la credibilità della guida stessa. Per questo ho comunicato ad Andrea la mia scelta”. Né io sapevo se Gori fosse o meno iscritto all’Albo. Posto che in ogni caso, essendo responsabile della guida, avrebbe comunque potuto decidere di escluderlo ugualmente per questioni di opportunità, se c’è il tesserino, come ben sappiamo, la pubblicità è in effetti deontologicamente proibita.