Circa tre anni fa ho avuto l’occasione di lavorare alla social media policy di un grande quotidiano italiano. È stato un progetto molto interessante che mi ha portato a leggere e confrontare le policy di numerosi giornali stranieri (in Italia solo La Stampa l’aveva scritta e resa pubblica), ma anche di varie aziende non editoriali. Per questo continuo a guardare con grande interesse l’evoluzione delle policy, quasi sempre un insieme di regole di buon senso che indirizzano i giornalisti verso l’uso migliore degli strumenti di social. Anche ONA, Online News Association, di cui faccio parte se n’è dotata, benché più rivolta all’etica, alla protezione delle fonti e al dare il giusto riconoscimento ai contenuti Ugc.
Serve una policy per dei professionisti dell’informazione? Sì, perché a oggi – ve lo dico con certezza, andando in aula a parlare di queste cose almeno una volta alla settimana – il livello di conoscenza degli strumenti social nelle redazioni è ancora molto disomogeneo. E perché, benché io mi scagli contro chi si ostina a chiamarli ‘nuovi media’ bisogna ammetterlo: nessuna generazione di giornalisti e comunicatori ha vissuto una rivoluzione del genere, un cambiamento epocale in cui tutti possono liberamente accedere agli strumenti di comunicazione e in qualche modo a fare, condividere, commentare l’informazione. C’è ancora bisogno di parlarne e di divulgare le buone pratiche d’uso.
La scorsa settimana il New York Times ha deciso di pubblicare una versione rivista, ampliata e corretta della sua policy. Per certi versi non dice nulla di nuovo – le solite regole di buon senso eccetera – ma alcuni punti sono molto interessanti e li analizzo qui.
We believe that to remain the world’s best news organization, we have to maintain a vibrant presence on social media. But we also need to make sure that we are engaging responsibly on social media, in line with the values of our newsroom.
Engaging responsibly, che è un po’ come quel ‘bevete responsabilmente’ che campeggia sulle etichette della birra. Fin qui, tutto bene e bene anche il fatto che la policy sia stata scritta con l’aiuto di giornalisti attivamente presenti sui social media.
Ma poi, succede qualcosa se qualcuno disattende la policy? Pare di sì:
Violations will be noted on performance reviews.
In aula una delle domande che mi rivolgono più spesso è: “Gli account sono miei o sono della testata? Posso scrivere ciò che voglio? Insomma, sono ‘io’ o sono sempre ‘il giornalista’?”
Domanda difficilissima, perché borderline. Non si può negare che un account social è essenzialmente uno spazio personale, dove un giornalista politico magari scrive solo dei suoi hobby, ad esempio. Ma non possiamo dimenticare che ci sono professioni e professioni e che un fruttivendolo – per dire – gode di molta più libertà, sempre nei confini del lecito, di esprimere le proprie opinioni su fatti di cronaca. È abbastanza chiaro che, come giornalista assunto, ossia come professionista che racconta fatti o esprime opinioni sotto il cappello di una testata, l’influenza che si può esercitare su followers, amici e fan è più forte che se si svolge un altro mestiere. E c’è anche un’altra questione da considerare: le centinaia o migliaia di followers ci sarebbero ugualmente se non ci fosse, vicino al nome, il peso di una testata conosciuta? Cioè, di chi sono, effettivamente, i followers? Questione già sviscerata, ma mai risolta, nel 2011 con il caso della giornalista BBC Laura Kuenssberg.
In ogni caso, il NYT non ha dubbi: gli account social sono sempre professionali, ciò che si scrive è sempre passibile di danneggiare la testata per la quale si lavora, quindi attenzione:
We consider all social media activity by our journalists to come under this policy. While you may think that your Facebook page, Twitter feed, Instagram, Snapchat or other social media accounts are private zones, separate from your role at The Times, in fact everything we post or “like” online is to some degree public. And everything we do in public is likely to be associated with The Times.
Nick Confessore, reporter del NYT, aggiunge (grassetto mio): “The reality is that my Twitter account is a Times account. The Times does not control it, but the Times is held accountable for what appears on my feed. Indeed, the casual reader interprets my social accounts as an extension of our digital platforms, for good and ill. I think all of us at the Times need to embrace this as the price of our employment by a major media institution. (And in fairness, to the extent my Twitter account is influential or widely read, it is largely because I am employed by The Times.)”
Cedere un po’ di libertà in cambio di un posto al Times. Giusto? Sbagliato? Ragionevole? Esagerato? Difficile avere un’opinione chiara. Quello che è certo è che se ci si trova in disaccordo sulla linea editoriale della giornale per il quale si scrive, tanto da sentire il desiderio di sconfessarla sui social media, i social stessi sono l’ultimo dei problemi e sarebbe meglio interrogarsi su quale direzione abbia preso la nostra vita lavorativa e se non sia il caso di cambiare rotta.
E per ripetere una cosa che dico sempre, non basta certo la canonica scritta: “RTs are not endorsement”. I retweet sono endorsement eccome, soprattutto quando non accompagnati da un commento di spiegazione del RT stesso.
Infine, qui da noi, ce lo ricordiamo fra gli altri il caso Paola Saluzzi, vero?
Personalmente, poteva anche avere il diritto di dare dell’imbecille ad Alonso. Al bar con pochi amici selezionati. O se avesse fatto, appunto la fruttivendola.
Attenzione anche al bar, però: come ci ricorda questo pezzo del Post, non è solo online che si rischia di oltrepassare la linea. Per rispondere a chi sostiene che anche un giornalista ha diritto ad esprimere opinioni “pesanti” sui social: no, non è così e non è mai stato così. Anche prima dei social, se un giornalista veniva invitato a un convegno o a una trasmissione Tv non poteva dire liberamente tutto ciò che gli passava per la testa. Non vedo perché dovrebbe essere lecito farlo online, a meno di non aver confuso dei potenti strumenti di comunicazione pubblica con giocattoli per chiacchierare con gli amici.
Per chiudere il primo punto, e perché sono in questo mondo da tanto tempo, ricordo che Steve Buttry lo scriveva già nel 2012:
A professional journalist using Twitter should behave professionally. Your profile should identify you as a journalist with your news organization. You should behave accordingly.
E Margareth Sullivan nel 2014 – allora Public Editor proprio del NYT – qui citata da Matthew Ingram a margine del caso di un tweet di un giornalista del NYT usato (a sua insaputa) come recensione promozionale per un film, ricordava come dobbiamo essere sempre molto attenti a quello che scriviamo, immaginandocene anche utilizzi che non vediamo al momento:
Secondo punto importante, non si chiedono ‘favori’ sui social media approfittando della qualifica di giornalista:
On that same note, we strongly discourage our journalists from making customer service complaints on social media. While you may believe that you have a legitimate gripe, you’ll most likely be given special consideration because of your status as a Times reporter or editor.
Molto corretto, ma non vorrei essere un giornalista del NYT se poi devo raggiungere in altri modi che non siano Twitter il servizio clienti della mia compagnia di telefonia mobile, per dire. Pazienza.
Altri punti sono già noti: non tutto va anticipato sui social, ci possono essere notizie per le quali gli sforzi si devono focalizzare prima sul sito; non è il caso di litigare, è necessario accettare le critiche e trattare i lettori con rispetto. Bisogna essere trasparenti e correggere gli errori alla luce del sole (quanta strada ancora da fare su questo punto, quanta). Ancora, sul bias e sul fact-checking, ossia le fondamenta della reputazione di un giornalista:
Avoid joining private and “secret” groups on Facebook and other platforms that may have a partisan orientation. You should also refrain from registering for partisan events on social media. If you are joining these groups for reporting purposes, please take care in what you post.
Exercise caution when sharing scoops or provocative stories from other organizations that The Times has not yet confirmed. In some cases, a tweet of another outlet’s story by a Times reporter has been interpreted as The Times confirming the story, when it in fact has not.
Tutto prescrittivo, quindi? No: molti nonsifa, indubbiamente, che potrebbero portare al caso estremo di giornalisti che decidono di chiudere gli account o di usarli molto al di sotto delle loro possibilità per evitare fastidi. Però c’è anche un invito a sperimentare, pur slalomando tra molti paletti:
We want our journalists to feel that they can use social media to experiment with voice, framing and reporting styles — particularly when such experiments lead to new types of storytelling on The Times’s platforms.
E cinque regole finali, la prima che secondo me avrebbe potuto anche essere l’unica, insieme all’immortale regola aurea della BBC, “Don’t do anything stupid”. E cioè:
1. Would you express similar views in an article on The Times’s platforms?
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