Da anni insegno strategie e buone pratiche per utilizzare i social media nel giornalismo e, nel mio piccolo, mi capita di ricevere la stessa domanda rivolta qualche giorno fa a Enrico Mentana. I colleghi che al momento non lavorano o sono in bilico nelle loro redazioni mi domandano se acquisire nuove competenze digitali potrà far trovare loro un nuovo impiego, e dove. I più giovani, spesso in università, vogliono invece sapere dove c’è posto per fare il giornalista.
A entrambe le domande non ho risposte certe, ovviamente. Sono piuttosto d’accordo con Mentana circa il piano B e il problema dei “vecchi” che non si riescono a mandare in pensione. (Peraltro, mi farebbe piacere cosa ha risposto invece a suo figlio quando gli ha comunicato di voler fare il giornalista.)
Solitamente, invito a guardare esempi positivi di giornalismo diverso. Il crowdfunding di ValigiaBlu. L’esperimento molto interessante di Marina Petrillo che ha creato un account su Patreon chiedendo finanziamenti per la sua attività di giornalista e saggista. La via della newsletter, come ha fatto Good Morning Italia (ho solo i dati di luglio 2016 raccolti per il mio Social Media Journalism, li condivido: quasi 4mila abbonati paganti, più di 25 mila utenti registrati nel 2015, conversione all’abbonamento da trial a paganti (periodo: da luglio 2014, avvio della versione pay, a dicembre 2015): 17%. O Slow News, che ha dimostrato di saper sfruttare bene le nicchie: con 3 newsletter aperte (una di curatela editoriale e produzione di articoli originali di slow journalism, una sull’economia, una dedicata a chi fa comunicazione, giornalismo, marketing) conta 600 abbonati per 20.000 euro circa di fatturato (dati 2016).
Ma suggerisco anche di guardare alle aziende. Quelle che negli ultimi anni si sono dotate di vere e proprie redazioni per produrre contenuti originali, magazine, narrazioni. È oggettivamente molto più facile, dico loro, trovare uno spazio lì che in una redazione tradizionale – ovunque ti giri, boccheggiano – e fare esperienza creando contenuti promozionali in modo intelligente, seguendo le regole della comunicazione social: un marchio non più invadente, che “sparisce” per lasciare spazio a una vera conversazione. Tutto sommato, molto più trasparente del vecchio publiredazionale mascherato o del product placement nascosto in tante rubriche; chi come me è stato tanti anni in redazione ne converrà.
Funziona? Come sempre, dipende: se fatto bene sì. Condivido ad esempio alcuni dati del settore vinicolo, mia altra passione lavorativa e non, perché li ho freschi dal (bellissimo) evento veronese Wine2Wine. Adam Teeter, fondatore di VinePair (fenomeno editoriale da 20 milioni di utenti al mese, ci è arrivato in soli 4 anni con una crescita incredibile) ha dichiarato:
We believe sponsored content is the best way to engage with Millennials
I Millennials, sempre loro. E perché? Perché, sempre Teeter:
The way the next generation is engaging with content has changed. They want stories that allow them to feel connected to products.
Ma queste storie, le leggono? Pare di sì:
On average, consumers spend almost two-and-a-half minute with a branded story – the same amount as editorial content.
La sua slide conclusiva, per chi ama i numeri:
L’obiezione più frequente? “Ma quello non è giornalismo. Io voglio fare il giornalista.” Benissimo. Chi sono io per spezzare un sogno? Basta sapere però che fare il giornalista, da sempre, ma oggi più che mai, vuol dire cose molto diverse. E che forse è necessario staccarsi dall’immagine romantica dell’inviato genio e sregolatezza, più immaginata che reale, e che comunque, anche quando parzialmente valida, riguardava una minoranza di fortunati. Essere giornalista oggi ha molto a che fare con la comprensione e l’interpretazione di quei “bridge roles”, ruoli ponte, citati nel NiemanLab tra le previsioni del 2018.
Many of these positions are currently the product of the personal development of those who are shaping them every day, reflecting a unique combination of experiences and opportunities. One is rarely similar to another. What they have in common is that they’re often placed in cross-functional teams and have a bridging component. Their importance is that they are agents of change.
Certo, ci sono distinzioni da fare. Anche Marco Bardazzi, spesso citato come esempio di giornalista di grande esperienza che ha lasciato la redazione per diventare capo della comunicazione in Eni, in questa intervista a Pagina99 fa una doverosa distinzione:
Servono regole precise. Bisogna essere chiari. Quello che conta veramente per noi non è tanto il rapporto tra noi e gli editori ma tra noi e i lettori. Personalmente anche il termine branded journalism non mi piace: giornalismo e branded content sono due cose diverse, anche nel caso in cui a farlo siano dei giornalisti.
Un paio di settimane fa sono andata alla presentazione milanese di Agi (“Competeremo non sul flusso della quantità, ma della qualità, perché noi giornalisti siamo cercatori non portatori di verità”, ha detto il direttore Riccardo Luna, e lo speriamo tutti, soprattutto per quanto riguarda la qualità versus quantità) e della sua novità AgiFactory, guidata da Daniele Chieffi, che si occuperà appunto di “storytelling transmediale e giornalismo di marca, da veicolare sui canali del brand”. Ossia, produrre contenuti di valore, sfruttando i mezzi e le piattaforme ogni volta più adatte, ad hoc per le aziende che vogliono comunicare direttamente con il loro pubblico. Un’ottima occasione per fare a Daniele, anche lui con una lunga esperienza giornalistica in redazione, le stesse domande che mi rivolgono i miei studenti.
Cosa rispondi a quelli che ti dicono che il brandend content non è giornalismo?
Che hanno ragione e hanno torto contemporaneamente. Se pensi alla missione sociale del giornalismo – raccontare i fatti in maniera indipendente per informare dal punto di vista qualitativo un pubblico di riferimento e farne crescere la capacità critica – non lo è. C’è l’aspetto informativo senza quello di missione e ruolo sociale. Ma lo è in quanto ne utilizza le tecniche e le competenze, anche quelle più avanzate (che spesso mancano in redazione, NdA). Esiste però un punto di contatto: oggi ci sono dei soggetti – aziende, istituzioni organizzazioni – caldamente invitati a dialogare con il loro pubblico, senza intermediari. Devono farlo e devono fare informazione. Non giornalismo, ma informazione. Qui si aprono delle posizioni molto interessanti.
Sì, perché le aziende spesso non hanno all’interno le competenze adatte
Esatto. Servono giornalisti, anche senza tesserino, ma con una preparazione tale da comprendere le notizie, intercettare i bisogni del pubblico e soddisfarne gli interessi.
Le altre competenze fondamentali per essere interessanti agli occhi di un’azienda che vuole fare informazione?
La narrazione aziendale parte dai dati: devi conoscere perfettamente il tuo pubblico per essere rilevante e interessante. Quindi, il data journalism è fondamentale. Perché le aziende hanno storie da raccontare che non pensano nemmeno di possedere e che vanno tirate fuori dai numeri. Poi, la curiosità e la capacità di gestire il rapporto diretto con gli stakeholder. Non dico di fare social media management, ma di pensare che tutto ciò che produci diventerà oggetto di conversazione. E che siamo tutti, sempre, in vetrina.
Se iniziassi adesso, ti candideresti a un posto in azienda?
Senz’altro. Ho inziato facendo anche l’ufficio stampa. Sono stato sempre molto curioso della comunicazione in generale e oggi le possibilità e soprattutto i modi di occuparsene sono molto più ampi di allora.
Ultima aggiunta personale: la scorsa settimana ero a Trieste per la prima lezione della nuova edizione del Master in Comunicazione della Scienza alla Sissa di Trieste, dove insegno dal 2013. Per la prima volta in quattro anni alla domanda: “Siete qui perché volete fare i giornalisti?” ho ricevuto un coro di no.
(Grazie, come sempre, a Dilbert per essere illuminante).
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