Io sono un genitore ansioso. Peggio: sono una persona ansiosa. Quando non avevo figli, stavo in ansia per i miei genitori (anche adesso, ma meno: per fortuna l’ansia si redistribuisce, non si moltiplica). E per i miei gatti. Tanto per dare il quadro all’interno del quale mi muovo.
Sono entrata in prima elementare nel 1978, a Genova, città piuttosto calda in quel periodo: Brigate Rosse. Non ho mai avuto paura, dalla prima alla quinta. Non ho mai avvertito minacce alla mia vita, mai sentito il peso di una tragedia incombente. Eppure sono certa che i miei genitori qualche pensiero lo avessero. I bambini non andavano ai concerti, allora. Mia madre direbbe: “Non usava”. Ma gli attentati usavano, sì. Le pallottole vaganti. Le bombe sui treni.
Una decina di anni più tardi ho iniziato a viaggiare da sola. L’Irlanda, la Spagna, un mese a Londra: sono partita poco dopo un giro di bombe, esplose proprio nella stazione della Tube dove sarei passata tutti i giorni.
Non avvertivo pericoli, non avevo paura, avevo l’invincibilità dei vent’anni, l’immortalità insita, non ho mai pensato che potesse capitare qualcosa di brutto.
Non ho idea di cosa pensassero i miei genitori: per fortuna a quell’età la volontà di immedesimarsi nei problemi della generazione precedente è nulla. Per fortuna, perché se prima o poi un figlio lo fai, a un certo punto ti tocca: che senso ha iniziare qualche decennio in anticipo?
Non mi hanno mai trasferito le loro ansie, o lo hanno fatto con molta moderazione. Se paure avevano, se le sono tenute.
Io che non ho mai fatto mistero di non volere figli anche e soprattutto perché temevo di non reggere all’ansia, dopo una notte insonne passata su Twitter e sui live di Guardian e BBC, pensando al terrore di quei genitori in attesa fuori dalla Manchester Arena, la mia idea dell’inferno, ho scritto questo: