È un ottobre iniziato all’insegna della parole.
Le parole del vino, che stanno alla base del mio nuovo libro Social Media Wine, sono quelle della scheda di degustazione AIS (ma ce ne sono di simili per le altre associazioni), che mi hanno fatto riflettere sull’importanza di conoscere il lessico giusto per descrivere (anche) un’esperienza sensoriale. Capire cosa vuol dire, parlando di vino, “molle”, “acido”, “fragrante”, è essenziale per avere una base comune di discussione. Per comunicare. Per comprendersi. Da queste e altre parole e, come si direbbe in una serie tv, “da un’idea di Giampaolo Colletti” – sono partita per creare una presentazione che ho portato in giro con Registro.it e poi al Food&Wine Tourism Forum. Una presentazione che è diventata il primo nucleo del libro uscito ieri, dove il mio racconto sulle parole è in appendice. Qui potete scaricare l’indice, la mia introduzione e la prefazione di Marcello Masi.
Il libro è un po’ il fratello vinicolo del mio precedente Social Media Journalism. Ho cercato di unire due grandi passioni; quella per la comunicazione digitale, per la divulgazione, per l’how-to, con la mia decennale esperienza nella formazione, rafforzata dall’anno passato come Media Trainer per il Google News Lab (2.300 giornalisti formati in tutta Italia, 14.000 chilometri in treno!), con quella, più recente ma molto intensa, per il vino. Negli ultimi quattro anni, dal diploma di sommelier, ho avuto la fortuna di lavorare per il social media team di Vinitaly e di collaborare alla gestione e strategia dei canali social di Ais Milano e Lombardia. Ho cercato di imparare il più possibile, affinché nel libro non ci fosse solo l’uso migliore di Facebook, Instagram, Twitter, YouTube e degli strumenti di Google, ma anche e soprattutto il racconto di come si comunica il vino online, attraverso casi, esempi, testimonianze di produttori, influencer (ma sarebbe meglio chiamarli influexpert), giornalisti e sommelier.
E qui arriva il network. Perché, come per il libro precedente, mi sono resa conto di quanto sia importante stringere relazioni forti e sincere con le persone che frequenti online e offline. Per questo libro molte persone, aziende, consorzi hanno prestato il loro tempo, hanno condiviso con generosità trucchi e suggerimenti, si sono fatte intervistare con entusiasmo. In primis Marcello Masi, una carriera stellare nel giornalismo televisivo, pioniere dell’informazione enogastronomica in tv, che ha creduto al mio progetto quando era ancora un abbozzo e mi ha regalato una bellissima prefazione. E questa rete di connessioni, di scambio di idee, di confronto è la cosa meravigliosa che la rete mi ha dato da sempre, la tengo come un tesoro, la alimento, la nutro e nulla mi farà mai cambiare idea (e a proposito: partire da questo, dall’empatia, dal calore, dalla trasparenza è il primo passo per creare una comunicazione online che funzioni).
Ma torniamo alle parole: quelle che racconterò sabato 12 ad Artigiani delle parole serviranno a dimostrare che essere “semplici” non significa essere banali. Mi è venuto in mente un bellissimo libro uscito nel 2011, Il libro delle parole altrimenti smarrite, di cui avevo parlato sul blog di Vanity Fair. Allora, anche per ovvia assonanza con il mio cognome, avevo deciso di salvare dall’oblio la parola “sgarzigliona”. Oggi, per riflettere insieme sull’importanza di ampliare il nostro lessico, di saper usare parole che sono le più esatte per descrivere un’emozione, un’esperienza, una nuance o uno stato d’animo, sarà bello partire dal progetto di Zingarelli, meravigliosamente raccontato da Luisa Carrada. Il vocabolario Zingarelli 2020 contrassegna con un fiorellino 3.126 parole desuete, che per pigrizia o scarsa conoscenza sono sempre meno usate, e che saranno portate in tour con l’hashtag #paroledasalvare. Adottatene una: io sono indecisa tra vivido (che peraltro uso abbastanza spesso) e leccornia. Ma anche il già citato desueto ha un suono bellissimo.
Infine, poiché niente accade per caso, qualche giorno fa mentre giravo per Roma godendomi un settembre estivo, sono capitata in un negozietto che crea bijou riutilizzando vecchi dizionari e libri di scuola che sarebbero andati al macero. Ogni monile porta con sé una parola da mostrare orgogliosamente. Io ne ho cercata una blu – con lo sfondo blu, certo, il mio colore preferito; ma anche che mi suonasse blu: della mia ossessione per le sinestesie ne parliamo un’altra volta, ci vuole un post dedicato.
Me la vedrete al collo se come spero c’incontreremo da qualche parte, perché a breve partirà anche il tour delle presentazioni del libro. Anzi, se volete che ne parli a un vostro incontro, convegno, evento, fatemi sapere: le parole bisogna portarle in giro.
Buon ottobre e tante belle parole (e non parole buone) per tutti.