Un racconto sicuramente parziale, ricostruito con tweet, post e articoli, perché sia a più voci. Ma necessariamente personale. Lo faccio solo perché, in questo tempo sospeso in cui ogni giorno è uguale all’altro e una cosa potrebbe essere accaduta sei mesi fa come ieri, rischio già di dimenticare tutto. E io non voglio dimenticare niente. La foto della citazione l’ho trovata online. Visto che, come da manuale delle citazioni online a muzzo, è attribuita, a caso, a John Lennon, a Paulo Coelho, a nessuno, ad “anonimo”, mi sembrava perfetta per esemplificare la chiara e lineare comunicazione che noi cittadini abbiamo avuto fin qui.
Fine febbraio, vacanze di Carnevale
27 febbraio. Mia figlia aveva appena salutato i compagni di classe per quella che pensava essere una breve vacanza di Carnevale – uffa, solo due giorni, mamma! – ed eravamo in montagna in Trentino. Le notizie sul coronavirus iniziavano a rincorrersi, avevamo avuto dubbi se partire o meno, ma io avevo davanti un mese di marzo zeppo di impegni, treni, lezioni e consulenze e volevo riposarmi un po’. Il 20 febbraio ero a Verona, per un ciclo di giornate di formazioni e consulenze per il Vinitaly 2020, che al momento era confermato. Un collega di ritorno dalla Cina esibiva, un po’ per scherzo un po’ per tranquillizzare tutti, il certificato del tampone negativo ottenuto in ospedale. Ci raccontava di cose inenarrabili. Ci diceva che non avevamo idea e che quello che filtrava qui era solo un’infinitesima parte di quello che succedeva là. Sarebbe stata l’ultima volta in cui sarei andata a Verona; la giornata di aula successiva, il 25 febbraio, è stata poi sospesa per precauzione. Ma sono i giorni di #milanononsiferma (e Bergamo pure), quel video oggettivamente fastidioso, anche se non fosse poi successo tutto quel che è successo, infarcito della peggior retorica lavoroguadagnopagopretendo. Facciamo miracoli ogni giorno, teniamo ritmi impensabili ogni giorno, diceva. E già allora mi veniva da rispondere: eh, bravi scemi che siamo. Quel video che tanti danni ha fatto al nostro peraltro ottimo sindaco Beppe Sala. Sono i giorni in cui decido a occhi chiusi di credere a Maria Rita Gismondi che parla di “un’influenza un po’ più forte”. È l’unica cosa che voglio sentirmi dire; penso sia isteria collettiva, penso che tutti gli altri esagerino, rido, alzo gli occhi al cielo quando leggo di gente che svuota i supermercati.
Anche se inizia la conta dei morti e a Codogno è già esploso tutto, i bar sono chiusi dalle 18 in un tentativo di bloccare il rito milanese per eccellenza, l’aperitivo. Anche se qualche giorno prima tutti i ristoranti e negozi asiatici avevano deciso autonomamente di chiudere. E di trollarci pure un po’ per i rigurgiti razzisti contro il “virus cinese”. Ho scattato la foto il 25 febbraio. Quel “riapriremo il prossimo lunedì”, letto ora, fa venire da piangere.
Ma a Cavalese l’unico segnale era la sparizione dell’Amuchina in farmacia. Piste piene, ristoranti pieni. Poco prima di rientrare a Milano, arriva la notizia delle scuole chiuse per una settimana. Riflettiamo se fermarci ancora qualche giorno in montagna, poi ma no, dai, torniamo, che sarà mai.
2-8 marzo, verso la chiusura
La prima settimana di chiusura delle scuole e di alcune attività scivola via, strana e irreale. Per mia figlia, quasi un’occasione di riposo; è arrivata a marzo davvero stanca, visti i tipici impegni di una preadolescente milanese: scuola tutto il giorno, musica, tennis, inglese. Io sono straniata da questa immobilità – mai successo da anni di non prendere un treno per più due giorni di seguito. Arrivano a grappoli le prime cancellazioni di impegni di lavoro. Da partita Iva, inizio a pensare quanto tempo potrò reggere e ovviamente rimpiango quel senso di ansia che avevo solo pochi giorni prima a guardare il calendario: di nuovo troppi impegni, di nuovo mi sono caricata troppo, come riuscirò a fare tutto? Facile, basta tirare una riga su tutto quello che c’era da fare e trovarsi in un attimo come la moglie di Anselmo in Dolcenera, con un sacco di tempo da riempire di non si sa cosa.
E la moglie di Anselmo sente l’acqua che scende
Dai vestiti incollati da ogni gelo di pelle
Nel suo tram scollegato da ogni distanza
Nel bel mezzo del tempo che adesso le avanza
Inizia la tregenda della didattica a distanza che rivela, ce ne fosse stato ancora bisogno, l’enorme inadeguatezza digitale dell’istituzione che prepara i nostri figli alla vita. Come sempre: tutto lasciato alla buona volontà di qualche docente, maggioranza degli altri sparita, dirigenti non pervenuti, muro di gomma a ogni richiesta. Stanno pensando a una soluzione, ci faranno sapere. Nel frattempo, l’unico cenno di vita è caricare i ragazzi di compiti dati a caso, subdolamente spalmati su tre piattaforme diverse, ognuna meno user friendly dell’altra. Si formano task force spontaneee di genitori per aiutare i meno digitali e anche per guidare i figli altrui rimasti a casa da soli. Perché qui tanti, troppi, lo capiremo poi, ancora escono tutti i giorni per lavorare.
Sempre per quanto riguarda la scuola, il 4 marzo avviene il primo macroscopico errore di comunicazione, più che errore, l’anticipo di una tendenza. A pensarci ora, quanti ne avremmo dovuti sopportare. In una logica da Asilo Mariuccia sulla pelle delle famiglie, la comunicazione delle lezioni sospese fino al 15 marzo viene prima ventilata pissi pissi bao bao, poi data dall’Ansa in due modi diversi, infine smentita nientemeno che dalla BBC, per poi essere confermata in serata. Inizia la lunga fase delle bozze “rubate”. Avremmo dovuto capire già allora, e invece.
AP: "ci arrendiamo, fateci sapere". https://t.co/J0Lgw8F9kF
— Luca Sofri (@lucasofri) March 4, 2020
Non c'è nessuna confusione sulle #scuolechiuse o aperte, non avete capito niente: questa è un'iniziativa del governo per spiegare ai ragazzi la fisica quantistica.
— Dio (@Dio) March 4, 2020
Se è aperta e chiusa insieme, allora è la scuola di Schrodinger.
Lato ludico, dopo molto rimuginare, decido di accettare un invito a pranzo per il 6 marzo. La metro è semivuota, appaiono le prime mascherine, l’atmosfera è densa, pesante. Ma il pranzo è stato eccezionale e con il senno di poi sono proprio felice di averlo fatto; come scrive Safran Foer in Eccomi, non sai mai quando stai facendo qualcosa per l’ultima volta, lo scopri solo a posteriori. Torno a casa a piedi, passo davanti al Duomo, la piazza è già più vuota del solito. Faccio una Stories su Instagram seduta sugli scalini per dire che qui a Milano va tutto bene, che ho l’Amuchina in tasca e che passerà presto.
Ma siamo ancora in modalità #andràtuttobene, appaiono arcobaleni che sanno di artefatto, ma fanno tanta tenerezza, la consegna è quella e gli italiani la rispettano. Anche se i flash mob dal balcone alle 18 sono via via più deserti (e meno male, vista la scelte della musica, almeno qui da me). Io faccio quello che faccio di solito quando sono stressata. Cucino come una pazza. Tutti fanno il pane e la pizza. Inizia a scarseggiare il lievito. Tutti fanno dirette Instagram per spiegarti questo e quello, io racconto ricette nelle Stories di Instagram, facendomi truccare dai filtri perché di farlo io non ne ho già più voglia. Smetterò presto anche con le Stories e i filtri. Tutti vogliono mettere a disposizione degli altri quello che sanno. Per un attimo, sembra di essere tornati alla rete dei primi tempi, quella vibrante, quella calda, quella utile, quella di condivisione. Ma è stato solo un attimo. Io però non riesco a guardare nulla perché, paradossalmente, il tempo mi vola via, anche se sembra tutto un lunghissimo mercoledì, anzi, una domenica di brutto tempo, di quelle noiose, quando il lunedì non sai se temerlo o attenderlo, che almeno hai qualcosa da fare. Soprattutto: ho decine di libri in attesa ma non riesco più a leggere. Non riesco più a concentrarmi. Sarà che anche qui a Milano l’eco di quello che sta succedendo nella vicina Val Seriana e in generale nella bergamasca sconvolge. Tra qualche settimana sapremo che la mancata decisione di chiudere Alzano e Nembro, con le loro innumerevoli piccole e medie imprese, significherà un’ecatombe per quella zona. Ma per il momento, quello che arriva a Milano sono voci, eco. Sentito dire? No, qualcosa di più. Testimonianze. Amici che raccontano. Famiglie terrorizzate che non escono neppure sul balcone perché qualcuno ha detto che il virus “è nell’aria”. Persone morte in casa senza assistenza. Ospedali nel caos. Paginate di necrologi sull’Eco Di Bergamo. Tamponi che non ci sono, sì ci sono, no non li facciamo, sì li facciamo solo se ci sono sintomi. Vado a dormire sfogliando compulsivamente Twitter fino alle due, le tre di notte, poi non dormo più. Svuoto un flacone di Rescue Remedy prescritto a mia figlia per non so più cosa, al quale credo come alle apparizioni divine, ma non importa, tutto fa. Dopo due giorni così, tolgo le app di Twitter e Facebook dal cellulare. Basta.
Lombardia, com’è facile volerti male
Di sorrisi non ne fai e ti piace maltrattare
Ma noi siamo i figli storti, nati dentro un’osteria
E riusciamo a respirare, pur essendo in Lombardia
Scivoliamo così verso il 7 marzo quando, con modalità identica a quella della chiusura scuole, avviene il secondo decreto-leak che anticipa la chiusura della Lombardia. Praticamente, un’unica grande zona rossa. Apre le danze il Corriere, segue panico tra i cittadini che iniziano ad abbandonare Milano e altre città per fuggire verso il sud dove, per molte persone che vivono in Lombardia, evidentemente c’è l’unica casa in cui vogliono essere chiusi dentro. Seguono anche polemiche tra giornalisti di diverse testate, tra chi ha dato la notizia ancora non ufficiale – contribuendo al caos delle partenze e all’angoscia generale e chi, come Il Post, ha deciso di non darla e spiega perché:
Riceviamo domande. Chiediamo scusa per l’attesa, ma data la delicatezza della situazione e l’importanza di avere informazioni esatte e certe, il Post pubblicherà eventuali decisioni delle autorità politiche sul coronavirus solo nel momento in cui siano ufficiali
— Il Post (@ilpost) March 7, 2020
Io mi dispero per mia madre restata sola a Genova – settimane dopo, un amico cardiologo di Bergamo mi dirà: “molto meglio così” – ma non penso nemmeno per un attimo di lasciare Milano. E poi, abbiamo gli ospedali migliori d’Italia, un’eccellenza europea; che senso avrebbe spostarsi? Già. Alla fine di un weekend demenziale, domenica 8 siamo tutti in attesa della conferenza stampa ufficiale di Giuseppi Conti, che a forza di ritardi, arriva nel cuore della notte. Chissà come mai questa comunicazione che definire istituzionale è una barzelletta assomiglia così tanto ai colpi di scena, agli sforamenti in tarda serata e alla suspence vera o presunta del Grande Fratello.
È l’una di notte e siamo in attesa di una conferenza stampa su una cosa da nulla come la chiusura della Lombardia. Da Marte è tutto oppure ho bevuto troppo. No other choice
— Annalisa Cuzzocrea (@la_kuzzo) March 8, 2020
Conte che si dimostra vieppiù irritato per la fuga di notizie. Chissà chi è stato.
La "pubblicazione" del "#dpcm, che stavamo formando a livello di governo... ha creato incertezza, insicurezza, confusione e non lo possiamo accettare": lo dichiara il presidente del Consiglio #Giuseppe Conte parlando delle misure sul Coronavirus. https://t.co/SEGy3c68r7
— Agenzia ANSA (@Agenzia_Ansa) March 8, 2020
Ma la cosa più lucida sull’argomento bozze, emergenza e comunicazione istituzionale secondo me l’ha scritta Alberto Puliafito qui.
Insomma, tutto confermato, non si entra né si esce e soprattutto non si capisce nulla, come al solito. Stiamo parlando della più grande limitazione di libertà che abbiamo mai vissuto e le notizie, frammentarie e confuse, vengono date alle due di notte su Facebook. Il decreto parla di spostamenti vietati in entrata e in uscita dalla regione e anche “dentro, fuori e all’interno” di queste zone. All’interno, cioè? Tra città? Tra province? Tra quartieri di Milano? I trasporti pubblici ci saranno? Ho aspettato le due di notte e di cosa potrò fare lunedì ne so meno di prima. Mi assale un senso di claustrofobia raramente provato prima e ho quella che – finora – è l’unica vera crisi della quarantena. Mi siedo sul balcone pensando al mare e piango per un bel po’. Ci sta.
9-15 marzo. Le autocertificazioni e i runner untori
Inizia il valzer delle autocertificazioni. Nel giro di una manciata di giorni, le versioni arriveranno a 5, ognuna con un pezzettino in più: Il Post le ha raccolte tutte qui, per il vostro archivio di burocrazia demenziale, ne aveste uno. La sensazione di dover compilare un foglio per dichiarare che ho il diritto di uscire non mi piace, per usare un eufemismo. Lo iniziano a dire in tanti: sa di stato di polizia.
Tant’è, questo dobbiamo fare. I dati che arrivano, le testimonianze che filtrano dalla vicina Bergamo sono così agghiaccianti che mettono a tacere qualunque velleità. Non solo: caricano a molla buona parte dei miei concittadini che si trasformano all’istante in zelanti controllori del senso civico – o dell’idea che ne hanno loro. Scrivono indignati post su Facebook, spiano dalle finestre, chiamano la polizia se vedono qualcuno fuori dal portone. Nonostante io negli anni abbia cesellato la mia bolla social il più possibile, ne avverto i riverberi. Penso siano una minoranza, li allontano come mosche fastidiose. Torneranno.
Nel mentre, la didattica online è ancora un miraggio. I dirigenti scolastici ci fanno sapere che, indovina? Ci stanno riflettendo. Intanto, annaspiamo tra pdf e schede sfocate di compiti inviate su Whatsapp, su Edmodo, sul Registro elettronico, via mail, ovunque. Prendo in mano la chat di classe e organizzo una videochiamata per mia figlia e i suoi compagni. Ci sono tutti, in un tripudio di risate e urla. Sentir ridere mia figlia di cuore, a gola aperta, mi riscalda. I ragazzi, i più dimenticati in tutto questo, i più invisibili, i più tranquilli, i più resilienti, quelli che per cui è normale vedersi tramite un video, ci salveranno. Ma chissà che conto presenteranno, poi. In una chat di rappresentanti di classe, alla presenza di uno psicopedagogista che ci chiede come stanno i nostri figli, una mamma nota: “Sembra bene. Ma in realtà sono come congelati. Fermi. Sospesi. Non parlano dell’emergenza. Si comportano come se tutto fosse normale e questo mi fa paura. Preferirei urlassero si sfogassero, piangessero per questa prigionia. E invece sono come estranei a tutto e non riesco a capire dietro la facciata cosa ci sia”. Esattamente.
Non è vero. Mio figlio (9 anni) mi ha chiesto se esistono ancora "gli altri". Si è messo in testa che forse sono tutti morti anche se vede amici e nonni sul video. "Perché non so se sono veri". L'ho portato in strada e ho telefonato ai vicini perché si affacciassero dal balcone
— Valentina Furlanetto (@valfurla) March 14, 2020
Si continua a cucinare, al logoro mantra #andràtuttobene a cui già nessuno più crede, qualcuno sostituisce #andràtuttostretto. Io penso che alla fine, potessi contare su uno stipendio a fine mese come quelli che hanno un lavoro fisso, forse mi adatterei alla situazione un po’ meglio. Ma se a questa angoscia aggiungi quella di non guadagnare più un euro chissà per quanto tempo, non è proprio facile. Faccio una pizza, dopo aver solennemente giurato per tutta la vita che fare la pizza in casa è una follia, quando con una manciata di euro te la portano, calda e buonissima. E infatti fa schifo. Cambiare idea nella vita è sintomo di intelligenza e flessibilità, ma mica sempre. Paradossalmente, bevo pochissimo vino. Era la mia coccola, il mio regalo quando tornavo a casa la sera dopo una giornata lunga e faticosa, che contemplava almeno due treni, uno dei quali all’alba. Adesso non mi sento di far nulla per meritarmelo. A casa tutto il giorno, riordino svogliata, scribacchio qualcosa, non sono più stanca, sono solo estenuata. Con buona pace degli sceriffi da balcone, una parvenza di normalità è assicurata dal fatto di poter fare ancora “attività motoria all’aperto”. Abituata a camminare per chilometri, con le gambe che ormai mi fanno male per l’immobilità forzata, esco una volta ogni due giorni e cammino veloce, a testa bassa, da sola o con mia figlia per le strade del quartiere. Guardando le persone in lontananza, schivandole, cambiando marciapiede come in un videogioco assurdo. Un giorno vedo la polizia che fa alzare le persone sedute sulle panchine di una piazza, anche se erano ben distanziate. Mia mamma da Genova mi conferma che è successo anche a lei mentre, in un parco ancora aperto, faceva le parole crociate. Cerchiamo di ridere dicendoci che forse il virus sta sulle panchine. O che lo zelante vigile urbano che l’ha fatta alzare e mandata a casa era frustrato per non aver mai risolto il Bartezzaghi.
Nel frattempo il Vinitaly, dato per confermato in uno slancio di ottimismo, viene inevitabilmente spostato a giugno. Arriva la notizia che il mio adorato Sepúlveda, fra i primi a essere stato colpito dal virus, è in coma. La moglie smentisce. Gioisco, ma ora so quanto sarebbe stata breve quella gioia. Tom Hanks e sua moglie risultano positivi al tampone e probabilmente fanno più loro per cambiare l’opinione pubblica negli US, che fino a quel momento aveva preso il virus per poco più di una sceneggiata all’italiana, che cento proclami dell’Oms. Mentre noi ci struggiamo sui dieci minuti di aria sì/dieci minuti di aria no e compiliamo autocertificazioni pure per andare a comprare il pane, Berlusconi si trasferisce nella sua villa di Nizza. La nuova data sulla quale sognare, data che sembra irraggiungibile, è quella del 3 aprile. Ma Francesco Costa, una delle voci più lucide dall’inizio di questo delirio, avverte di non farci troppo affidamento, anche se «tenere le persone chiuse in casa ha un prezzo che cominceremo a misurare in depressioni, attacchi di panico, liti, omicidi e suicidi.» A nessuno sembra importare. In UK la strada scelta all’inizio da Boris Johnson è opposta a quella italiana: teniamo tutto aperto, lasciamo che il virus faccia il suo corso e che chi deve morire – gli anziani, i più deboli, gli immunodepressi – muoia, dichiara in estrema sintesi. Indignazione a secchiate, seguita da pronta marcia indietro poco dopo e da una divertente, per così dire, giravolta del karma che vede BoJo prima infettato a casa e poi grave in ospedale. “Mai fare incazzare i vecchi”, mi scrive su su Whatsapp mia madre, che aveva strepitato non poco di fronte alle dichiarazioni del premier UK. Se vi interessano i dettagli su quello che è stato definito come “il morbillo-party più grande del secolo”, eccoli.
1. The govt strategy on #Coronavirus is more refined than those used in other countries and potentially very effective. But it is also riskier and based on a number of assumptions. They need to be correct, and the measures they introduce need to work when they are supposed to.
— Professor Ian Donald (@iandonald_psych) March 13, 2020
Da noi permane la fiducia cieca nelle istituzioni: siamo terrorizzati, abbiamo lo sguardo della lepre catturata dai fari dell’automobile, i numeri spaventano ma soprattutto spaventa il decorso del virus, che proprio qui in Lombardia sta esplodendo con una violenza mai vista finora. Non osiamo ribellarci. Ma qualche voce intelligente fuori dal coro comincia a dire: non è che per caso stiamo sbagliando qualcosa? O potremmo fare cose diverse?
In Corea del Sud, dopo l'esplosione iniziale la curva dei contagi ha già iniziato a flettere.
— Fabio Sabatini (@FabbioSabatini) March 12, 2020
Finora sono morti 66 pazienti su 7800 (contro i nostri 827 morti su circa 12500 contagi).
Perché?
La Corea ha attuato una nuova strategia da cui possiamo imparare molto.
👇 pic.twitter.com/9RD2F6gZi8
Sabato 14, trovo uno slot libero per l’Esselunga a casa. Ok, è per il 29 marzo, mai aspettato così tanto, ma se l’Esselunga non cede e Amazon consegna ancora, possiamo farcela. Avete presente quelle battute fatte dai non milanesi sull’importanza dell’Esselunga per chi vive a Milano? Ecco, è tutto vero. Se regge l’Esselunga, reggiamo noi. Nel frattempo, è arrivato il weekend, nuova fuga da Milano verso il sud, non si capisce come, ma evidentemente avevano tutti le autocertificazioni in regola. Sono i sindaci del sud che non li vogliono o non li vorrebbero, ma pazienza, arriveranno lo stesso. Per fortuna, la tanto paventata bomba di contagi al sud non è mai avvenuta, ma in questi giorni il terrore era palpabile. Sabato, anche, per uno di quei bellissimi cortocircuiti che a volte accadono, Lorenzo Monguzzi, ex cantante di quei Mercanti di Liquore che mi risuonano incessantemente in testa da quando sono chiusa qui dentro, annuncia un concerto da casa. Ce lo vediamo saltando sul divano con Apecar, commuovendoci per Lombardia, riflettendo su Cecco il Mugnaio. La dodicenne, che li adora, compresa. Un flashback di vent’anni fa, quando Bergamo non era necrologi, curve, numeri, interviste disperate con medici senza più risorse, ma voleva dire solo cene, vino e quel gruppo di amici che una volta mi disse: vieni a sentire i Mercanti? I chi? Sono bravi, suonano anche De André, e da lì iniziò l’amore.
Forza venite gente, correte, correte, è scoppiata la peste
Vi si comanda perciò di chiudervi in casa e serrar le finestre
Dimenticate dunque questa vita, il vostro re dichiara che è finita
E tutti quanti dicon di si, e sono già pronti a morire
Soltanto Cecco il mugnaio decide di nuovo di disobbedire.
Domenica mi arriva un Sms: la consegna dell’Esselunga è spostata dal 29 marzo al 5 aprile. Apro il frigo e il freezer, guardo cosa è rimasto. Inizio a vacillare.
16-22 marzo. Qualche dubbio s’avanza
Il lockdown non basta, denuncia oggi l’OMS.
— C.A. Carnevale-Maffè (@carloalberto) March 16, 2020
Senza applicare le “3T” (trace, test, treat) con tecnologie e processi adeguati, la Bestia tornerà a diffondersi appena usciremo di casa. Un thread fondamentale, da leggere, tutti. https://t.co/7dKfidDXga
Le giornate iniziano a essere punteggiate da riti dei quali avremmo volentieri fatto a meno. Uno è il giro delle farmacie “nei pressi di casa”, come da chiarissimo decreto, per cercare mascherine e Amuchina gel. Di farmacie ne ho quattro in un chilometro o poco più: nulla, niente, sparite. Mi chiedo come sia possibile che un’intera regione- anzi, LA regione, il fiore all’occhiello, la locomotiva dell’Italia intera – minacciata da un virus non sia ancora riuscita a far produrre, arrivare, comprare, consegnare, un numero sufficiente di mascherine. L’altro è la tristissima conferenza stampa della Regione alle 18, in cui si snocciola un rosario di dati che sembrano ogni volta peggio. Data la depressione, penso a Tenco:
Guardare ogni giorno
Se piove o c’è il sole
Per saper se domani
Si vive o si muore
E un bel giorno dire basta e andare via.
Magari si potesse andare via, caro Luigi. Ma c’è chi inizia a dire che forse quei dati non sono proprio così corretti. Che non rappresentano la realtà. Arrivano testimonianze di molti, moltissimi asintomatici ma soprattutto moltissimi sintomatici che non vengono tracciati, vengono lasciati, febbricitanti, malati, spaventati, a casa senza tampone e senza cure e soprattutto liberi di infettare i familiari conviventi. Ma si sa: #iorestoacasa, non c’è altra via, non osate contraddire. Io decido per avere sempre meno fonti: la newsletter de Il Post, la mia amica Mafe che in chat ogni giorno mi dà i dati – aggregati appositamente per la mia ansia, e l’ottimo Paolo Spada, medico all’Humanitas, che ogni sera elabora grafici chiari e immediati anche per chi come me non ha nozioni di statistica. Arricchiti da un commento comprensibile e sempre incoraggiante, lontano anni luce dagli show del terrore di Gallera e Fontana. Prima lo faceva solo su Facebook ma poi, dimostrando più sensibilità del nostro presidente del consiglio nei confronti di chi Facebook non lo usa, anche su questo sito. E a proposito di strumenti digitali: io davvero non so se ce l’avrei fatta finora senza la chat con le mie amiche e il filo diretto whatsapp con mia mamma, per cui se pensate che questo sia un disastro, lo è, ma ripensate a cosa sarebbe stato senza la rete. La rete, dicevo: dopo solo tre settimane, la scuola di mia figlia partorisce la didattica online. Scegliendo una piattaforma che non nomino per decenza e che, fino a oggi, ha concesso a malapena due ore di lezione al giorno (contate che la scuola di mia figlia sarebbe a tempo pieno), tra “sovraccarico” e problemi tecnici inenarrabili.
Dopo tre settimane di pensamenti, oggi prima lezione online (finalmente) della scuola di mia figlia: tutto bene. Seconda ora: salta il collegamento per sovraccarico della piattaforma. Chat genitori in esplosione. Non ce la faremo mai 🙄 (@mante, se servono ancora testimonianze)
— Barbara Sgarzi (@barbarasgarzi) March 17, 2020
Scopro per caso su Facebook che un conoscente è all’ospedale con il Covid. Ha la mia età. Ha una figlia delle mia età. Abita a 500 metri da qui. È grave. È la prima persona che conosco contagiata. Per ore non riesco a pensare ad altro. Ordino integratori e vitamine a caso su Amazon, come in un rito pagano di salute. Ordino pure un saturimetro, che non si sa mai. Quando arriverà scoprirò che servono due pile per farlo funzionare ma le pile, non rientrando nei beni di prima necessità, al supermercato non le vendono. Insieme alla cancelleria (tanto s’è detto, i bambini non esistono) e pure la biancheria intima. Vago per casa cercando due pile da rubare in un altro elettrodomestico. Per il resto, iniziano le allucinazioni, tipo sentire distintamente l’odore di mare a Milano – ma è perché l’inquinamento è crollato, spiegano, e giù foto di cervi e gnu in città, ah, la natura ha ripreso possesso dei suoi spazi, finalmente. Lo dice anche uno dei centordicimila consulenti di Conte, tal Gunter Pauli, tra altre amenità che se volete potete trovare qui.
Al momento in cui scrivo, secondo me sono tre le immagini che resteranno nella memoria. La prima è stata consegnata ai ricordi la sera del 18 marzo quando Bergamo è attraversata dai camion militari che portano via le bare. Nel mezzo di una delle settimane più dure, quando le sicurezze di tutti noi vacillano e ogni telefonata o messaggio o articolo condividono notizie dolorose. C’erano altri modi per portare via dalla città annichilita quei poveri morti? Sicuramente. C’era un altro modo che più avrebbe colpito l’immaginario collettivo unendo forza militare, la stessa che stavano invocando molti cittadini per far rispettare le regole, autorità e disperazione? Non credo. Ammutoliamo tutti, per giorni, storditi come dopo aver sbattuto la faccia contro un muro.
Tra di noi confinati, ci chiediamo insistentemente ‘come stiamo’, le risposte sono avverbi: “Bene. Compatibilmente”. Bene sì, visto quello che sta succedendo altrove. Io non mi lamento: sono chiusa in casa con due tra le poche persone con cui avrei scelto di farlo. Non sono un’amante della socialità. Sto benissimo da sola. Amo interagire con strumenti digitali. So cucinare, il che è un extra bonus. Non so cosa sia la noia, non mi annoio mai, non ho bisogno di ammazzare il tempo, poveretto, perché il tempo mi vola via da solo. Sono, come tutti, enormemente preoccupata. E spaventata. E in ansia. Per fortuna dopo uno stop completo, il lavoro riprende, con formazioni e consulenze online. La casa è ormai un ronzio costante di quelle che chiamiamo “call”. Tra di noi in casa comunichiamo ormai per mezzo di cartelli, camminiamo rasente ai muri per non entrare nella videocamera di una call altrui. In questa settimana avrei dovuto iniziare una nuova avventura come docente al Master in comunicazione in Enologia e territorio alla Cattolica di Brescia: la aspettavo con gioia da mesi, ma ovviamente a Brescia non ho mai messo piede. Ribalto tutto il materiale, proviamo a fare il corso online; gli studenti sono svegli e brillanti, ci inventiamo un’esercitazione che sta andando molto bene, si chiama Calici virtuali, la trovate raccontata qui. Che i ragazzi ci salveranno l’ho già detto, sì?
Ci vogliono lenti per correre avanti, ci fanno ascoltare i loro cantanti
Ci vogliono fermi per prendere la mira, noi diventeremo una giostra che gira.
Non ci salveranno loro, gli spioni dal balcone che in questi giorni raggiungono il loro massimo. Sapevo già che l’italiano medio nasconde, neppure troppo bene, una voglia di regime, di uomo forte, di divieto; solo, non credevo fino a questo punto. Per strada con mia figlia vengo aggredita verbalmente da due donne che mi chiedono se stiamo andando a lavorare. Torniamo a casa camminando lontano dal marciapiede – tanto non ci sono più auto – perché l’atmosfera è così carica di negatività che temo qualcuno ci tiri qualcosa dalla finestra. Non uscirò praticamente più – di sensazioni negative ne ho già fin troppe, senza incamerare le frustrazioni altrui. I “runner”, quelli che vanno a correre, per i quali correre è una salvezza fisica e psicologica, vengono additati come i peggiori untori, coacervo di tutti i mali. Osservo stupita il montare di questa rabbia cieca e penso che chiunque l’abbia guidata, ha fatto un lavoro davvero egregio. Mi sfugge ancora il motivo, ma si capirà presto.
Una mia amica con meraviglioso figlio adolescente diversamente abile ha fatto una passeggiata di mattina presto a pochi metri da casa in un piazzale vuoto. Il ragazzino va necessariamente tenuto per mano. È stata fotografata, e le foto esposte su fb. Avete l'animo del cecchino.
— Valeria Parrella (@ValeriaParrell2) March 17, 2020
Come nel tritacarne di The Wall, insieme a chi corre alla gogna finiscono rapidamente: quelli con il cane; quelli che escono con i bambini (che, a differenza dei cani, la pipì dovrebbero saperla fare a casa e chissenefrega se non vedono la luce da settimane. Nessuno li nomina, a nessuno interessano, come sempre nel paese della retorica dei figli piezz’ ‘e core, i figli restano un affare privato di chi li ha fatti); quelli che vanno troppo spesso a fare la spesa. Le aziende che non concedono lo smart working quando potrebbero, che obbligano i dipendenti ad andare a lavorare senza che ci siano condizioni di sicurezza, le istituzioni che non hanno vigilato su ospedali e zone da chiudere in tempo, invece, non sono mai bersaglio di critiche. Chissà perché. Io sono tra i pochi che tenta di far ragionare le persone più incattivite, ma è come svuotare il mare con il colapasta. Il colapasta di Enrico la talpa, quando va in guerra contro l’imbecillità, vi ricordate? Questa striscia penso che abbia 30 anni. Minimo. Guardate com’è attuale e, pensate: non si poteva neppure dare la colpa ai social, allora.
A ogni tentativo di buonsenso, si viene zittiti a colpi di “ci sono i morti”. Che ci sono. Sono tantissimi, non si riescono a contare, sconvolgono le vite e le famiglie e i pensieri di tutti. Ma non è colpa di chi va a correre, di chi si sente urlare in faccia andate a casa, anzi, #iorestoacasa. Era abbastanza facile intuire che una tragedia di queste proporzioni non avesse nulla a che fare con una persona sola che corre a debita distanza dagli altri. Ma l’indottrinamento è stato tanto e tale che non lo si è voluto capire. D’altro canto ora, vedendola in prospettiva, solo che settimane dopo, ricordo bene quanto terrore avessi. Ricordo il mio misurarmi la febbre dodici volte al giorno, non appena mi sentivo solo un filo più stanca e magari non era che noia. Ricordo le mie telefonate spaventate a mia madre: non uscire, non toccare niente, non avvicinare nessuno. Ti mando la spesa io. Ti mando i libri io. E se la comunicazione che girava ha fatto questo effetto su di me che mi considero, per esperienza e per mestiere, abbastanza sgamata nel leggere fra le righe di quello che arriva da colleghi giornalisti e istituzioni, posso solo immaginare la bomba che deve esser stata su persone con meno strumenti utili per filtrare questa guerra mediatica. In un’atmosfera apocalittica passa San Patrizio, che festeggio come sempre preparando il manzo alla Guinness. Curiosamente, l’Irlanda mi viene a trovare spesso in questi sogni agitati da pandemia. Aggiungo alle mie sempre più selezionate fonti Roberta Villa, giornalista scientifica di rara sensibilità e ancora più rara voce fuori dal coro che cerca di far ragionare i delatori, come in questo post in cui ricorda, fra l’altro:
“Ci siamo dentro tutti insieme. E solo se ci diamo una mano e abbiamo comprensione gli uni per gli altri possiamo arrivare in fondo tutti insieme. Non basta cantare dai balconi.”
Altre voci fuori dal coro in questa difficile settimana in cui sembra più complicato del solito avere un’opinione diversa dalla massa sono quelle di Luca Sofri e di Davide Piacenza di Wired. Per il resto, anche persone insospettabili, che ho sempre considerato intelligenti e autonome nei giudizi, sono cadute nella rete. Credo che tutti noi abbiamo fatto le pulizie di primavera nel network delle persone che seguiamo: uno dei pochi lati positivi di questa situazione. La settimana scivola lenta tra narrazione teleguidata sugli italiani indisciplinati (i dati sui controlli la smentiranno), racconti perplessi di cittadini fermati e rimandati a casa anche se in possesso della giustificazione (!), sensazione sempre più stringente di stato di polizia, numeri che non migliorano affatto, bravi cittadini che invocano l’esercito in strada, De Luca a Napoli che parla di lanciafiamme per chi esce – e tutti ridono, e molti lo chiamano eroe – altri bravi cittadini che fotografano chi esce e poi lo mettono alla gogna su Facebook. A ripensarci ora, è stata forse una delle settimane più difficili. Avevamo ancora, chi ci voleva credere, il miraggio di uscire per Pasqua. Ma eravamo nel pieno del disastro e l’un contro l’altro armati. La mia già fragile fiducia nel genere umano vacillava parecchio.
C'è troppa gente che può girare e pochissima gente che viola le ordinanze. Quindi: stiamo sprecando risorse e generando ansia con regole sbagliate. https://t.co/NqMeW8yCAH pic.twitter.com/y6nRawtsrP
— mafe (@mafedebaggis) March 22, 2020
Nel frattempo: a Torino – ma immagino anche altrove – aumentano i casi di Tso. Aumentano anche le richieste di aiuto per violenze domestiche. Facile dire #iorestoacasa e cantare Fratelli d’Italia dal balcone quando a casa si sta bene. Un po’ meno quando a casa ti menano. A Gallarate brucia una fabbrica. E mentre aspettiamo le cavallette e l’asteroide, Conte annuncia l’ennesima conferenza stampa per chiarire chi potrà lavorare e chi no, chi potrà tenere aperto e chi no, suddividendo le attività in essenziali o meno. Ma non chiarirà assolutamente nulla. E la conferenza stampa la terrà, di nuovo, su Facebook. Il che inizia a generare qualche perplessità.
Ma secondo voi si possono fare annunci alla nazione così annunciati all’ultimo e da un social network? Ha un senso istituzionale visto la gravità della situazione? pic.twitter.com/AOS4v4lquO
— Gio. Boccia Artieri (@gba_mm) March 21, 2020
La generazione di mio padre non ha Facebook.
— Giuseppe Strazzeri (@Stragiuse) March 22, 2020
La generazione di mio figlio non ha Facebook.
Esiste una TV di stato.
Ma cos'hai nella testa, esattamente?
23-29 marzo. Gli italiani furbetti, la pasta madre
Dopo l’ennesimo weekend inutile – piacer figlio d’affanni, diceva il Leopardi, che di affanni se ne intendeva. Ma se non c’è più la stanchezza, gli affanni del lavoro settimanale, la soddisfazione di un’attività svolta bene, che piacere può portare il weekend? – la settimana inizia con questa intervista ad Andrea Crisanti, direttore dipartimento di medicina molecolare Professore di epidemiologia e virologia dell’Azienda Ospedaliera dell’Università di Padova. A Crisanti è stata affidata la reazione della regione Veneto contro il coronavirus, reazione che finora ha portato risultati più rapidi ed evidenti che qui da noi. Tra le altre cose, dice:
È mancata una conoscenza epidemiologica, è mancato completamente il supporto sul territorio della Sanità Pubblica. È stato inesistente. I numeri della Lombardia sono tutti sbagliati.
Non è che in Lombardia si muore di più, il fatto è che il numero dei contagiati è molto maggiore, ma non sono rilevati.
Non c’è stato un contenimento iniziale e abbiamo 100.000 casi che non sono stati diagnosticati. Non si è compresa una cosa fondamentale: il numero reale dei contagiati.
La battaglia si vince sul territorio, non negli ospedali. In Veneto sono stati fatti 53.000 tamponi per 4.000 casi. Un tampone ogni 10 casi. In Lombardia dove i casi non è vero che sono 25.000 ma sono molti di più è stato fatto un tampone ogni 4 malati. C’è una differenza di 40 volte. Sono stati travolti.
E infine, l’agghiacciante risposta:
Se è così utile fare i temponi non solo ai sintomatici perché secondo lei c’è così tanta resistenza a farli?
Temo sia una questione ideologica. Siccome hanno sbagliato prima, vogliono continuare a sostenere una linea. Non vogliono ammettere l’errore. Tutto qui.
Tutto qui.
La settimana scivola in una nebbia ovattata come le altre, un po’ più nebbiosa delle altre. Ordino una cyclette pieghevole e un nuovo tappetino da yoga. Inizio a correre nel cortile, nel giardino condominiale, nei box. Tra le cose belle, Anthony Hopkins che suona il piano per il suo gatto, il capitano Picard che legge i Sonetti di Shakespeare e il primo #Dantedì che mi offre l’occasione di rivedere Gassmann mentre legge Dante.
Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore.
Capisco all’improvviso, con violenza, quanto mi manchino gli amici quando il mio amico Abe mi porta quattro preziosissimi cubetti di lievito trovati all’Esselunga. Lo vedo in cortile, a distanza di sicurezza, dopo più di un mese e mi viene da piangere. Mi rendo conto di non aver mai voluto fare un video aperitivo, una video chiamata con gli amici, quelle cose lì. Non me la sento, preferisco l’asetticità di Whatsapp. Nel frattempo, contravvengo al secondo sacro principio in cucina. Il primo era: mai fare la pizza a casa. Il secondo: mai cimentarsi (di nuovo, ahimè, ci sono già cascata anni fa) nel fare la pasta madre. Ma la mia amica Paola fa un video tutorial e io ho il mai provato prima terrore di terminare il lievito: mia figlia ha scoperto le gioie della panificazione e vuoi toglierle anche quelle? Inizio a preparare il mostro che dovrà essere nutrito con rinfreschi di farina ogni giorno, non avessi già la gatta. In pochi giorni mi rendo conto che per nutrirla dovrei comprare un intero mulino di farina. Mi maledico. Mi chiedo perché mi sono fatta fregare un’altra volta. Eppure lo so che non è roba per me.
Lato comunicazioni istituzionali, prosegue la pregiata tecnica chiamata “More Chaos”, sempre sulla pelle di cittadini spaventati, reclusi, ormai esausti. Insieme alla comunicazione dell’inasprimento delle sanzioni per i trasgressori, gira voce che ci rinchiuderanno fino al 31 luglio. Non non è vero. Resta il 3 aprile. Homepage di quotidiani cambiate in fretta. Chissà.
+ + + ATTENZIONE! + + + Nella terza modifica hanno definitivamente tolto qualsiasi riferimento al 31 luglio. Chapeau. pic.twitter.com/RRS5Dbxjry— Massimo Fiorio (@dietnam) March 24, 2020
Il Vinitaly è definitivamente spostato al 2021. Nel frattempo il settore vinicolo, uno dei meno digitalizzati d’Italia, per sopravvivenza scopre la rete e inizia a offrire degustazioni digitali a distanza e tour virtuali di vigne e cantine. La speranza è che questo afflato di innovazione forzata resti anche dopo che tutto questo sarà finito, if and when. Anche per la scuola, ad esempio, che continua ad annaspare in una didattica a distanza che spesso è più distanza che didattica. Intanto, siccome il coronavirus ha fermato le riprese di molte soap opera – si è bloccata pure l’inossidabile Beautiful – non ci vogliono lasciare senza telenovela e annunciano un nuovo modello di autocertificazione.
Un’autocertificazione per domarli, un’autocertificazione per trovarli,
— Andrea Delogu (@andreadelogu) March 26, 2020
un’autocertificazione per ghermirli e nel buio multarli.
I nemici della settimana non sono più i runner, o i padroni di cani, ma gli italiani tout court, additati di volta in volta come “furbetti”, “insofferenti alle regole”, sempre in cerca di una scappatoia per uscire. I dati dei controlli ci dicono l’esatto opposto, ma non importa: la narrazione è partita, lo stereotipo è servito. Bisogna trovare un capro espiatorio per quei numeri che in Lombardia non vogliono saperne di scendere, anche se Milano è deserta. Basterebbe guardare una delle tante webcam per rendersene conto.
Quando oltre il 95 per cento di tutti noi rispetta di buon grado le straordinarie restrizioni a cui siamo sottoposti, mai viste in Italia nemmeno durante la dittatura, forse il capo della polizia può evitare di fare una tirata contro «i furbi»?
— Francesco Costa (@francescocosta) March 26, 2020
Però, le voci contro la narrazione dominante “italiani untori furbetti” iniziano finalmente a compattarsi: come in questo articolo dell’edizione di Bergamo del Corriere che racconta un’odissea familiare di lutto e abbandono:
Non solo l’ospedale di Alzano fu chiuso per una ventina di ore e poi riaperto, «senza sanificazione», come hanno raccontato medici e infermieri nelle loro testimonianze. C’è di più, secondo Francesco Zambonelli, 55 anni, di Villa di Serio, che ha perso il padre di 85 anni per coronavirus, la madre ancora prima con sintomi sospetti e poi anche una zia, risultata positiva. «Dopo il decesso di mia mamma nel reparto dove erano stati accertati i primi casi di contagio e dove eravamo andati a farle visita ogni giorno — racconta — nessuno, né dall’ospedale, né dall’Ats, ci ha chiesto con chi eravamo stati a contatto o ci ha imposto di restare in quarantena. Siamo stati liberi di girare per giorni come volevamo».
Confermo e riconfermo con 2 parenti malati ed io in isolamento obbligatorio. Caro @GiulioGallera e presidente @FontanaPres NON fate i Tamponi. Non fate i tamponi!
— Manuel Giangualano (@MGiangualano) March 27, 2020
La Lombardia non fa tutti i tamponi che dovrebbe https://t.co/q4zkTIEjVU via @ilpost
Il 26 marzo viene convocata un’apposita conferenza stampa sulla scuola – vuoi negare a qualcuno i suoi 15 minuti di celebrità? – per non dire assolutamente nulla sulla scuola se non che, boskovianamente, “scuola è chiusa fino a quando non riapre“. Il paese distrutto e pronto a sbranare il vicino di casa perché “esce troppo” si ritrova più o meno unito dietro alla figura di Mattarella, che nel fuorionda più famoso della pandemia parla dei suoi capelli che non vedono un barbiere da troppo tempo. Ufficialmente, la data per la riapertura resta il 3 aprile, ossia tra qualche giorno. Ma nessuno ci crede più, anche se nessuno, come al solito, ci dice nulla.
Dice: come potevamo comunicare meglio? Per esempio: tutti sappiamo che il 3 aprile non riaprirà nulla. Vari membri del Governo lo ammettono in maniera estemporanea. Ma volete fare una comunicazione chiara su questo? #coronavirus
— federico ferrazza (@ferrazza) March 29, 2020
Il 27 marzo, durante le celebrazioni per la Pasqua che, ormai lo intuiamo, sarà in cattività, Papa Francesco ci regala la seconda immagine simbolo della tragedia. Un uomo solo, anziano, claudicante, prega in una piazza San Pietro deserta, azzurra di pioggia e lucida di assenza. Plebiscito, per credenti e atei: l’aggettivo più usato è “potente”.
Su Netflix rivediamo tutto Sherlock Holmes, che è sempre un bel vedere, e tutta The Crown. Sono ingrassata di due chili e inizio ad avere la nausea di cucinare, pulire verdura perché dobbiamo mangiare sano e immediatamente dopo pensare a cosa cucinare al prossimo giro. Un po’ come tutti, penso che se e quando uscirò di qui, cambierò tutta la mia vita: come i buoni propositi di Capodanno, ma di più. Non penso proprio, come dicono in molti, che dopo l’epidemia ci ritroveremo “migliori”. Basta guardare la bava alla bocca con la quale ci scagliamo gli uni contro gli altri. Penso però che io mi ritroverò diversa. Ed è David Grossman su Repubblica a dare voce a quello che molti di noi provano:
Quando l’epidemia finirà, non è da escludere che ci sia chi non vorrà tornare alla sua vita precedente. Chi, potendo, lascerà un posto di lavoro che per anni lo ha soffocato e oppresso. Chi deciderà di abbandonare la famiglia, di dire addio al coniuge o al partner. Di mettere al mondo un figlio o di non volere figli. Di fare coming out. Ci sarà chi comincerà a credere in Dio e chi smetterà di credere in lui.
Ci sarà chi, per la prima volta, si interrogherà sulle scelte fatte, sulle rinunce, sui compromessi.
Sugli amori che non ha osato amare. Sulla vita che non ha osato vivere.
30 marzo-5 aprile. Se hai la mascherina, vale tutto
La settimana si apre con una circolare del Viminale che chiarisce: si può fare una passeggiata con il figlio. O con un parente disabile che ha bisogno di muoversi. Gallera e De Luca fra gli altri insorgono, e il Viminale precisa: ma no, dai, si faceva per scherzare. O cose del genere. Nel frattempo, l’imprescindibile Fontana presenzia a una conferenza stampa per l’inaugurazione del nuovo ospedale in fiera. La mascherina ce l’ha e pare anche abbia imparato a metterla; ma dietro di lui c’è la folla delle grandi occasioni. Noi, dalla nostra cattività, s’insorge: ma allora? Il distanziamento? Gli assembramenti? Che c’entra, risponde Gallera. Avevamo la mascherina, se hai la mascherina non conta, è tana-libera-tutti. Si fa interprete della nostra risposta corale Daniela Farnese:
MA ALLORA CHE CAZZ’ STIAMO FACENDO???!!! https://t.co/1cys73uspF
— Daniela Farnese (@Dania) March 31, 2020
Per il resto: è la settimana in cui il sito dell’Inps impazzisce sotto il peso delle domande per il ricco bonus da 600 euro concesso per l’emergenza e mostra agli ignari utenti screenshot di altre persone a caso. La giustificazione sarà: “è stato un attacco hacker”, quindi per qualchegiorno la narrazione #hastatoirunner si trasformerà in #hastatoglihacker. Peraltro, è pure il primo di aprile.
Ciao, ho provato ad accedere al sito dell'@INPS_it per curiosità e senza mettere nessun codice sono entrato nel profilo di due persone.
— insopportabile (@insopportabile) April 1, 2020
Forse avete un leggerissimo problema di sicurezza, di dati.#INPSdown
La spesa all’Esselunga, fatta il 14 marzo, finalmente arriva. Non mi ricordo nemmeno più cosa avevo comprato, ma come ho già spiegato, anche psicologicamente è un sollievo: la compagna Esselunga è viva e lotta insieme a noi, what could possibile go wrong?. La Regina d’Inghilterra, il nostro adorato highlander confinato perché il figlio Carlo era positivo al tampone, parla 4 minuti alla nazione, cosa rarissima, e a centordici anni dà al mondo una lezione di leadership, misura, buon senso. Prendere nota, citofonare Lillibet.
Contiamo sulle dita gli eventi che cadono uno dopo l’altro; in questi giorni in molti saremmo dovuti essere a Perugia per il Festival Internazionale di giornalismo. Con grande lungimiranza, è stato uno dei primi grandi appuntamenti rimandato direttamente al 2021. Sembrava un’esagerazione, e invece. Festival che lotta insieme a noi soprattutto attraverso la buona informazione di Valigia Blu, altra rara voce fuori dal coro. Ed è salutato un po’ da tutti, in Italia e all’estero.
How about everyone who misses Perugia and #ijf20 share something to let let @_arianna, Chris, Francesca and everybody else know how much we value their work and look forward to #ijf21 next year?
— Rasmus Kleis Nielsen (@rasmus_kleis) April 1, 2020
❤ love @journalismfest community, miss everything (esp Brufani bar conversations) pic.twitter.com/99hMwnco9a
I Sindaci di Bergamo, Brescia, Cremona, Lecco, Mantova, Milano e Varese iniziano a scalpitare per la gestione regionale dell’epidemia – Emilia Romagna e Veneto, compagne di sventura, sembrano cavarsela molto meglio della Lombardia, è indubbio – e scrivono una lettera aperta al Presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana. Domande inevase e molte critiche al grido di: state zitti voi che eravate quelli di Milano non si ferma e Bergamo nemmeno.
Mi arriva la cyclette e inizio a pedalare furiosamente sul balcone, la musica a palla nelle orecchie, sperando nelle endorfine regalo del movimento fisico, o di questa sua pallida imitazione. I giorni si trascinano lenti e uguali in una melassa appiccicosa ma allo stesso tempo, non capisco come mai, arriva sera e non ho fatto nulla di quello che mi ero prefissata al mattino.
Nel frattempo: Repubblica pompa panico nelle vene di gente esausta e già terrorizzata, che non apre più nemmeno la finestra, con un articolo il cui titolo agghiaccia. Non era vero, ma tant’è. Tra le vittime illustri di questa pandemia, mettiamoci pure l’informazione.
Apro @repubblica e trovo gridato in home page questo titolo allarmistico totalmente esagerato rispetto a quanto si dice nell’articolo.
— Suzukimaruti (@suzukimaruti) April 3, 2020
Già, ma l’articolo è dietro paywall.
Così la gente legge solo il titolo esagerato e morboso e va nel panico.
Complimenti. pic.twitter.com/8EOZHOsgAG
No, il virus non “circola anche nell’aria”. E grazie a @repubblica per la dose di panico quotidiana. Ne sentivamo il bisogno.
— Beatrice Mautino (@divagatrice) April 3, 2020
Il 3 aprile, la data miraggio, passa e va e noi siamo ancora chiusi dentro; i numeri, soprattutto quelli dei decessi, sono sempre spaventosi. Anche i più ligi e rispettosi tra noi iniziano a domandarsi: e se tutto questo non servisse? E se non bastasse? Ma soprattutto: ci possono essere modalità migliori del chiuderci dentro e stop? Su Twitter lo sostengono a gran voce da tempo, fra gli altri, Carlo Alberto Carnevale Maffè, Fabio Sabatini, Alfonso Fuggetta. Cosa suggeriscono? Test and tracing. Testare di più, tracciare di più i contatti, isolare, circoscrivere il contagio. Rincara la dose in un’intervista al Corriere Anders Tegnell, l’epidemiologo direttore dell’Agenzia di sanità pubblica svedese, paese dove le libertà personali sono state mantenute anche durante la fase più dura:
Voi fate come se l’epidemia possa scomparire nel giro di qualche settimana, o al massimo mese. Noi invece stiamo solo cercando di rallentarla, perché crediamo che questa malattia non se ne andrà così presto, e dovremo conviverci a lungo. Almeno fino all’introduzione di un vaccino, e questo richiederà anni.
Inizia a girare la data del 16 maggio, ma come sempre in modalità telefono senza fili. Inizio a comprendere davvero, con il cuore, cosa sia la cattività e ripenso a quel povero orso all’Alpenzoo di Innsbruck che, pur avendo a disposizione uno spazio ampio, ampio almeno per uno zoo, faceva ossessivamente avanti e indietro in pochi metri, quasi a urlare la sua protesta per quella prigionia.
Anni fa, per accontentare mia figlia che voleva vedere la lince, siamo andati all’Alpenzoo di Innsbruck.
— Barbara Sgarzi (@barbarasgarzi) April 3, 2020
Credevo avrei sofferto molto per la lince in gabbia. Invece ho pianto per l’orso che faceva avanti e indietro in pochi metri.
Ma solo ora lo capisco davvero, povera bestia. pic.twitter.com/t8Uyp4uV3Z
Si moltiplicano le segnalazioni di eccesso di zelo, chiamiamolo così, da parte delle forze dell’ordine. Persone multate mentre portano il cane fuori, chi rimandato a casa perché aveva comprato solo il vino, considerato bene non di prima necessità – quanto avrei voluto fermassero me con quella motivazione, mannaggia: vedevi che pippone gli attaccavo -, volanti che arrivano con rapidità mai vista se chiamati da uno sceriffo da balcone. D’altronde, se lasci alle forze dell’ordine un così ampio margine di discrezionalità e condividi informazioni fumose e confuse, ti va a fortuna, come quando ti fermano per un controllo in auto: da come ti si rivolge il poliziotto appena ti ferma, lo capisci subito se te ne andrai con una multa – a prescindere – o te la riuscirai a cavare con una paternalistica ammonizione. In realtà, nella stragrande maggioranza, siamo tutti rispettosi. Sì, pure a Roma, guarda un po’.
24.000 verifiche, 52 sanzioni.
— Giulia Blasi (@Giulia_B) April 3, 2020
Direi che i romani stanno andando più che bene, no, sindaca? Che ne dice di motivarci, ogni tanto? https://t.co/flfnRoWnW7
Nel frattempo ci prendono per il culo
— mafe (@mafedebaggis) April 4, 2020
"Ieri, secondo i dati della prefettura di Milano, su 12.513 persone controllate ne sono state sanzionate 339".
Cioè il 2,7%.
Non è che è ora di trovare capri espiatori diversi?
Scopro che il padre della mia amica Daniela è uno dei tantissimi contagiati nelle RSA. Improvvisamente, una persona vera esce dagli articoli che raccontano il dramma, non è più un numero fra i tanti, è proprio il padre di una mia amica che sta raccontando giorno per giorno il suo stillicidio, la sua odissea di figlia. Io penso a mio padre che non c’è più e mi scopro paradossalmente più serena così. Anche se in questo momento avrei amato molto ascoltare le sue tesi di vecchio ma sempre acuto complottista. Vengo a sapere che un’altra amica è sola ad assistere in casa la madre malata, che ha la febbre alta e respira a fatica. Non arriva nessuno ad aiutarla, per quanto chiami. Dopo un po’ di giorni le mandano una bombola d’ossigeno. Per imparare a usarla senza far esplodere la casa deve cercare su Google. E questo è quanto. E queste nella nostra Lombardia sono le persone, sole, malate, abbandonate, terrorizzate.
Per la prima volta nella vita, non mi arriva il solito messaggio da mia mamma “Ho fatto benedire una palma anche per te, quando vengo a Milano ve la porto. Male non fa”. Non l’avrei mai detto, ma mi manca pure quello. E pure la sua palma.
La settimana si chiude con un’ordinanza della Regione Lombardia: divieto di uscire senza mascherina. Peccato che le mascherine non si trovino da nessuna parte, neppure online, neppure pagandole come il tartufo d’Alba. E quindi? E quindi, parafrasando il “mangino brioches”, da Fontana ci viene risposto “vanno bene anche le sciarpe. O i foulard“.
Domani Fontana e Gallera sbroccheranno dicendo "chi cazzo ha messo in giro questa stronzata delle sciarpe e dei foulard?" e, quando verrà fatto notare che è una loro idea del cazzo, daranno la colpa al Governo e nomineranno Bertolaso commissario speciale delle sciarpe.
— Massimo Fiorio (@dietnam) April 4, 2020
Corriamo a cercare nei cassetti, appena riordinati nell’infinito tempo libero della quarantena seguendo i dettami di Marie Kondo, ma niente: non c’è traccia di Hermès, almeno qui. Ci arrangeremo. Io recupero un bandana anni 80 – vedi, a non buttar via niente – e trovo un tutorial per farmi una mascherina aggiungendo due elastici per capelli. La cosa quasi divertente è che sembra tutto normale. In meno di un mese ci siamo trasformati da persone senzienti, libere, con diritti e doveri ad amebe chiuse in casa, controllate a vista, rimpinzate di cibo e di dirette Instagram, piccole scimmiette autarchiche che fanno il pane, rispettano i divieti, non comprano libri e pile e fanno sport sul balcone. Quanto poco ci è voluto.
“Ne usciremo migliori”, seh, lallero https://t.co/47S4QYcZJi
— Barbara Sgarzi (@barbarasgarzi) April 2, 2020
6-12 aprile: su le mascherine giù le maschere
Iniziano a cadere un po’ di veli, mentre noi ci affanniamo a costruirci mascherine casalinghe, perché quelle vere non si trovano. Non che prima le cose non filtrassero, eh: qualche articolo, di quelli già citati prima, apriva squarci impressionanti in agonie casalinghe, tamponi mancanti, anziani (ma non solo) scomparsi per sempre in qualche ospedale, senza neanche un saluto. Ne trovate un po’ sulla pagina Facebook di Selvaggia Lucarelli, a partire da molte settimane fa. Solo che adesso quello delle rivelazioni è un fiume in piena. Dal tragicamente già noto disastro del Trivulzio, dove la direzione minacciò i medici che volevano usare le mascherine perché “spaventavano i pazienti” alla RSA di Palazzolo, in cui i parenti non hanno più notizie dei loro cari da settimane. Adesso sono qualcosa di più che voci e testimonianze isolate: sono, ad esempio le parole “epidemia colposa” che iniziano a girare per i comuni di Alzano e Nembro, mai chiusi quando si sarebbe dovuto e soprattutto teatro di un Pronto Soccorso chiuso e poi riaperto senza le dovute cautele, diventato in pochi giorni una bomba di contagi. Ne parlano un po’ tutti: qui, molto asciutta, l’Ansa; qui, decisamente più animoso, il manifesto.
In questo disastro anche di comunicazione, l’unica leader internazionale che al momento si ricorda dell’esistenza dei bambini è l’ottima Jacinda Arden, premier della Nuova Zelanda, che rassicura i più piccoli sul fatto che sì, il coniglietto pasquale e la fata dei dentini sono senza dubbio dei “lavoratori essenziali” e quindi continueranno nel loro insostituibile impegno. Ormai con me si gioca facile, ma neanche a dirlo: mi commuovo.
New Zealand PM Jacinda Ardern attempts to allay children's concerns by confirming Easter Bunny and Tooth Fairy are 'essential workers' https://t.co/N8ptpGCT2z— SkyNews (@SkyNews) April 6, 2020
Da noi invece la vigilia di Pasqua è invece allietata dall’ennesimo annuncio dell’ennesima conferenza stampa di Conte, ovviamente con l’ennesimo ritardo.
Scusate ma mentre aspettavo la conferenza stampa di #Conte è arrivato Godot.
— Sabrina Santamaria (@sbirillina) April 10, 2020
#Conte finalmente l'orario ufficiale: pic.twitter.com/pUyQImZlUD
— Genio78 (@Zziagenio78) April 10, 2020
La sostanza è che staremo chiusi qui dentro fino al 3 maggio. Almeno. Per ora. Il dramma è che nessuno sembra pensare al dopo: rispettare le norme della clausura sarebbe niente se sapessimo, o almeno fossimo informati, che si sta lavorando per il dopo. Che c’è un piano. Che qualcuno ha un’idea, una visione, compatibilmente con il fatto che, è vero, di questo virus si sa poco e quel poco che s’impara avviene giorno per giorno. Ma, come iniziano a dire in molti, da una parte c’è la scienza, da rispettare e conoscere e ascoltare, dall’altra la politica, che si prende le responsabilità di fare le cose. Qui il gioco sempre essere la corsa al consulente: più ne chiami, più la responsabilità di un’eventuale decisione viene diluita, ma anche rimandata ad libitum. Chiunque abbia lavorato in una grande azienda lo sa: quando il capo inizia a decuplicare i consulenti, il risultato è il solito: More Chaos. E nessuna decisione presa. Riassume bene Fabio Sabatini in questo thread, uno dei tanti in cui sollecita una presa di posizione per il dopo:
Restare a casa è essenziale ma non possiamo farlo in eterno, altrimenti la malattia si fermerà solo col decesso del paziente.
Scivoliamo verso una Pasqua strana confusi, stremati dalla cattività, soprattutto incazzati. Vivo a Milano da vent’anni e amo questa città che mi ha dato così tanto più che se fosse mia. Mi sono sempre sentita orgogliosa di contribuire a questo stile di vita, che è anche il mio: lavoro, cultura del fare, poche musse, diremmo a Genova, poche storie. La sensazione di vivere in un posto che rispecchia i miei valori e del quale mi fido completamente. Improvvisamente, siamo i paria d’Italia – non senza molti sogghigni e qualche vistapropriobene, che nelle prossime settimane diventerà aggressione vera, adesso è solo un sentimento sottotraccia. Annaspiamo. Non capiamo più nulla. Mentre le altre regioni pian piano si risollevano, noi continuiamo a peggiorare, o così ci dicono. “L’Emilia Romagna? È stata fortunata”, dichiara un ispirato Gallera, gli occhi al cielo. Anche il Veneto, evidentemente. Che distribuzione ineguale della fortuna, a pochi chilometri; tu pensa a volte il destino. La conferenza stampa della regionelombardia, tutto attaccato, il venerdì di Pasqua, volta sicuramente a scongiurare gite e fughe nelle seconde case, è un capolavoro di terrore, con quella Milano dipinta come una bomba innescata che sta per esplodere. Distrarre, sviare dai veri responsabili; continuare a dare la colpa ai cittadini che “escono troppo”, con insopportabili toni paternalistici. E intanto, le webcam su Milano e sulle principali autostrade restituiscono un vuoto desolante. Dov’è tutta questa gente che trasgredisce? Mistero. Ma finché molti ancora ci credono e urlano da balconi o s’indignano su Facebook, la strategia tiene. Ancora funziona. E poco importa che molti medici chiariscano – ancora – che il contagio avviene soprattutto in ambienti chiusi. Come Ernesto Burgio, che in questa interessante intervista fra le altre cose dichiara:
Deve essere chiara una cosa: essendo un virus respiratorio, il 90% dei contagi avvengono tra persone che hanno un rapporto diretto, che hanno un’esposizione ravvicinata, in ambienti chiusi. Cioè: famiglia, luoghi di lavoro e purtroppo ospedali. È molto difficile che ci si contagi per strada: questa idea venuta fuori negli ultimi giorni è una mezza fake news. Se fosse un virus che basta respirare per strada per ammalarsi, saremmo tutti morti.
Il capolavoro della narrazione “italiani trasgressori” arriva proprio a Pasqua. Mentre appunto le autostrade sono deserte, rimbalza online l’immagine delle file sulla Pontina, la strada che da Roma porta al mare. Indignazione, schifo, “bisogna spaccargli la testa” e amenità del genere. Peccato che a posteriori il numero dei sanzionati, pur in un mare di controlli, che ha contribuito a formare la file fotografata e condivisa con con tanto sdegno, sia ridicolo. E che Repubblica continui a modificare la notizia in un circolo vizioso del tipo: diamo in pasto ai cani rabbiosi i cittadini trasgressori – ah guarda non hanno trasgredito – ok allora metti ehi, non era fila, erano i controlli – adesso dai la colpa ai social che s’indignano. Intanto il circo di quelli che invocano l’esercito è stato nutrito ancora per un po’ con il suo osso quotidiano.
Vi regalo anche un paio di immagini delle autostrade liguri, ponente e levante, che quando vi ricapita di vederle così?
Nel frattempo, per evitare le multe, non aveste ancora capito le regole del social distancing, ci pensa Luigi Di Maio a spiegarvele:
“Sono 5-6 metri”.
— federico ferrazza (@ferrazza) April 6, 2020
No, non poteva dire sul serio. pic.twitter.com/AxpEt8mwI9
In tutto questo, qualcuno sta pensando alla Fase 2, che resto come un miraggio fissata a quel 3 maggio, forse, chissà? Sì, ma con calma: il 10 aprile Conte fa sapere di aver nominato un Comitato di esperti per iniziare a pensarci, il nome di spicco è Vittorio Colao.
Lontana dalla Liguria – Pasqua per me segna da sempre l’anticipo della stagione estiva, del saluto al mare – senza vedere mia madre da settimane, avverto improvvisamente forte l’esigenza delle tradizioni e mi cimento nella mia prima torta Pasqualina homemade. Molto buona, eh: ma uno sbattimento di proporzioni bibliche. Mai più, giuro. A Pasqua pranziamo in balcone, fa così caldo che dopo il primo dobbiamo riparare in casa. Domani sarà, ovviamente dato che siamo tutti chiusi in casa, una Pasquetta di sole, dopo decenni di picnic funestati dalla pioggia. Sull’onda della liberazione dalla cucina che mi sta prendendo, uccido senza rimorsi la pasta madre buttandola tutta in un impasto. Ha ragione Grossman: con questa pandemia, cambieremo. Stiamo già cambiando. E sinceramente, dopo non so più quanti giorni di cucina, pulizia e riordino, un altro coso da nutrire e del quale prendersi cura non mi ci voleva proprio. Adieu.
Noi siamo sempre chiusi in casa, alternando euforie da pilates in soggiorno ad abissi di depressione senza speranza. I dati, però, iniziano a darci ragione. Il famoso picco, qualcunque cosa voglia dire, sembra raggiunto. Superato non si sa, perché questa settimana inizierà una lunga fase di stallo. Francesco Costa sottolinea come i dati che ci propinano ogni giorno non vogliano dire nulla, non permettano di avere una visione, servano solo a nutrire
Le nostre innate pulsioni repressive e poliziesche si sono saldate con le informazioni fuorvianti trasmesse dalle autorità e dai media, che ci hanno convinti che la quarantena serva a sconfiggere il virus. Una cosa evidentemente falsa: la quarantena serve a prendere tempo e salvare vite intanto che ci inventiamo un modo per ricominciare una vita con il virus.
Roberta Villa fa eco, sottolineando come non ci sia più niente da chiudere, più nulla che i cittadini possano fare, se non si tengono sotto controllo i contagi casalinghi, se non si fanno tamponi, se non si separano gli infetti dai sani che vivono sotto lo stesso tetto:
Ecco perché in Lombardia la situazione non migliora e non può migliorare fino a quando:
– non si potenzieranno i servizi di spesa online o almeno di prenotazione della fascia oraria in cui andare
– non si organizzeranno squadre di giovani volontari addestrati e protetti per eventuali necessità da portare la spesa o, in alcuni casi, far da mangiare a chi è solo in isolamento, fino a portargli fuori il cane
– non si organizzeranno alberghi per ospitare in isolamento i positivi che stanno bene (no, due a Milano non bastano. Lo so che costano, ma costa di più la terapia intensiva). Quando si parla di Cina o Corea, la differenza non la fanno solo mascherine o test, ma soprattutto l’isolamento dei positivi
– non si sottoporranno a tampone anche tutti i pazienti a domicilio, anche con sintomi lievi, anche su richiesta e a pagamento (come in Germania), eventualmente con drive-in o test “sulla porta di casa” (per poi isolarli e assisterli, però, il tampone da solo non cura)
– per potenziare la capacità di test non si accetterà l’offerta dei maggiori centri di ricerca, sicuramente in grado di svolgerli in maniera affidabile
– non si potenzieranno (non solo di numero!) le pochissime unità di cura a domicilio
– non si forniranno di protezioni ADEGUATE i medici
– non si stabilirà un protocollo di trattamento anche a domicilio che vada al di là del paracetamolo, senza lasciare che ciascuno si arrangi secondo la voce dell’ultimo messaggio ricevuto su WhatsApp.
Ma finalmente iniziamo a leggere di terapie intensive più libere. Di Pronto soccorso non più presi d’assalto: quello di Bergamo, nelle fasi più acute, ha registrato fino a 500 persone al giorno. Ecco che forse si spiegano quelle tragiche catene di morti. Arrivati in ospedale in troppi, spesso troppo tardi, senza che ci fossero dispositivi medici per tutti. Nelle mani di medici disperati che tutti, con la peggior retorica che s’è vista in questa crisi, s’affannano a definire eroi e che stanno lasciando sul campo decine di corpi. Ma che alcuni non si trattengono – verrebbe da dire, a cadavere ancora caldo – dall’accusare. Accusare questi medici qui:
Ancora, le domande che si rincorrono. Si poteva fare di più? Negli anni: non depredare e svuotare la sanità pubblica? Nei mesi: iniziare a preoccuparsi di tutto quello che sarebbe arrivato da gennaio, visto che i primi avvisi alle istituzioni internazionali, Italia compresa, portano quella data? Leggo testimonianze agghiaccianti di parenti scomparsi nei corridoi di Rsa e ospedali e spero, con il cuore, che questo dolore immenso si trasformi in legittima rabbia, una volta che ci apriranno le porte. Uno per tutti, il racconto di ciò che è successo alla RSA Palazzolo di Milano:
Il giorno dopo, il 25 marzo, parlo finalmente col reparto. Mamma è stazionaria, mi tranquillizzano. Io però dico che ho letto i giornali, chiedo anche la situazione col Coronavirus lì dentro. ‘Non possiamo dirle niente, deve parlare con la caposala’, mi rispondono”.
Riesce a parlare con la caposala?
“Ovviamente non la trovo mai: o è a mangiare, o è uscita, o non c’è. Finché poi non arriva la telefonata del medico il giorno dopo, alle 8 del mattino: ‘Sua madre è morta’”.
Ma anche il ‘blitz’ della finanza in due delle Rsa più devastate dall’emergenza. Mandare i malati Covid tra gli anziani, i più deboli e i più colpiti dal virus è stato, ha scritto qualcuno che adesso non ricordo, mi perdonerete, ma la testa mi trabocca di frasi, testimonianze, siti, pagine in un flusso ininterrotto di orrore, “come gettare un cerino in un pagliaio”.
In una Pasquetta prevedibilmente assolata, scopro grazie a Roberta Maggio la mia nuova colonna sonora della cattività. Si chiama Patrona de los reclusos, cosa ci può essere di meglio? Ed è un salsone classico che se non ti fa venire voglia di muoverti, beh, hai un problema grosso.
Non si muove invece la scuola, grande assente dalla discussione pubblica insieme ai suoi frequentatori, bambini e ragazzi, dimenticati in qualche cameretta dall’inizio dell’emergenza. Mentre in molti paesi – anche fortemente colpiti, come la Spagna – si inizia a ragionare della riapertura, come spiega qui Avvenire, da noi è ormai assodato che non si riprenderà più per quest’anno. E che non sono neppure così certi di riaprire a settembre, visto che, sono parole delle ministra Azzolina, la didattica a distanza sta dando grandi risultati (hint: la ministra non ha figli). I genitori si costernano s’indignano s’impegnano poi getteranno la spugna con gran dignità, come fa lo Stato in quel capolavoro che è Don Raffaè. Ci sono qua e là focolai di polemiche. Gira una petizione. A nessuno di quelli che contano, per così dire, sembra importare granché.
Non ho altro da aggiungere su questo punto, semplicemente perché ci vorrebbe lo stesso spazio che ho occupato finora per raccontare tutto dall’inizio e non mi sembra il caso. Dirò solo che è indegno e tanto basti. Se volete leggere e firmare la petizione, la trovate qui. Se avete voglia di approfondire, iniziate da pezzi come questo, su Rivistastudio che s’interroga (come noi tutti genitori) su come si possa ipotizzare una riapertura con i bambini ancora a casa, e i nonni fuori gioco. O leggete l’accorata nota che la garante per l’infanzia e l’adolescenza Filomena Albano al Presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte chiedendo che venga inserito un esperto in materia di infanzia e adolescenza nel Comitato incaricato di proporre le misure per fronteggiare l’emergenza Covid-19. O anche questo pezzo su Vita.it. A proposito di petizioni, vola quella che chiede il commissariamento della sanità in Lombardia, lanciata da Milano2030: 73.000 mila firme and counting e l’hashtag #CommissariatelaLombardia conosce pure un momento di gloria su Twitter.
Il 16 aprile invece arriva una notizia che proprio non avrei voluto leggere. Sepúlveda non ce l’ha fatta. Spero sia una fake, ma non c’è verso; confermata da El Pais. Vado a rileggere le ultime parole della Gabbianella e il gatto, che mi fanno invariabilmente piangere tutte le volte, e figuratevi in questa situazione, non arrivo neanche a metà.
E poi, all’improvviso, è tempo di riaprire. Tutti parlando di riapertura. Chi quasi tutto, come Zaia. Chi qualcosa, come Fontana che ci delizia con l’ultima delle sue giravolte. Ma come, si domanda Beppe Sala, che con gli ultimi video sulla pagina Facebook ha ritrovato una grinta notevole, se il venerdì di Pasqua Milano era un disastro? Adesso va tutto bene, adesso riapriamo? Chissà. Lo deciderà una della millanta task force, che si moltiplicano quasi quanto i virologi in televisione.
Qui siamo annichiliti. Dalla paura, dalla noia, dalla stanchezza, dall’incertezza di un lavoro che non c’è e chissà come sarà e se tornerà di nuovo. Vediamo girare cose improponibili, come i cubi in plexiglass per delimitare gli ombrelloni. Continuiamo a leggere di delazioni e spedizioni punitive (io a questa cosa del runner pestato a sangue perché non aveva la mascherina non voglio credere Davvero, spero solo che non sia vera.) Aspettiamo ancora queste due eterne settimane per capire che succederà. E mentre da Barbara D’Urso si scatena una caccia all’uomo in diretta per inseguire un pedone solitario, questa tragedia ci regala la quarta immagine da conservare. Dicevo che le foto simbolo erano tre. Mi sbagliavo.